Il dispositivo, negli obiettivi della società, permette di controllare il telefono o il computer con il pensiero. Ma i neurologi avvertono: "Entusiasmo è prematuro"

Lunedì 29 gennaio il miliardario Elon Musk ha annunciato che la sua startup di impianti cerebrali, Neuralink, ha installato per la prima volta un chip su un essere umano. Il dispositivo, che al momento è in fase di sperimentazione clinica, si chiama ‘Telepathy’ (telepatia, ndr) e “consente di controllare il telefono o il computer, e attraverso di essi quasi tutti i dispositivi, semplicemente pensando“, ha detto Musk. Ma come funzionano gli impianti di Neuralink? 

L’obiettivo di Neuralink

Secondo quanto affermato da Neuralink sul suo sito web, la missione della startup è “creare un’interfaccia cerebrale, oggi per ridare autonomia a coloro che hanno bisogni medici e domani per sbloccare il potenziale umano“. Musk ha infatti annunciato che i primi utenti dei suoi impianti saranno “coloro che hanno perso l’uso degli arti”. In futuro, spiega Neuralink, la speranza è quella di riuscire a usare i chip per ripristinare funzionalità corporee come la vista, le funzioni motorie e la voce

Com’è fatto un chip

L’interfaccia cervello-computer di Neuralink, spiega la società, è “invisibile alla vista” ed è fatta per permettere di controllare con i pensieri un computer o un dispositivo mobile. Sigillata ermeticamente con una custodia biocompatibile, permette di resistere senza degradarsi all’interno del corpo umano. Il chip funziona con una batteria che si ricarica con un caricatore wireless compatto “che permette un facile uso dovunque ci si trovi”. 

Il meccanismo di funzionamento

Le componenti dell’impianto, una volta funzionante, assorbono i segnali provenienti dal cervello e li trasmettono via wireless all’applicazione Neuralink su un pc o un telefonino: a sua volta, la app decodifica il flusso di dati e lo traduce in azioni o intenzioni. L’attività neurale è registrata tramite 1024 elettrodi

Neurologo: “Ancora nessuna evidenza scientifica, cautela”

L’annuncio dell’installazione del primo chip di Neuralink ha suscitato entusiasmo ma, secondo Paolo Maria Rossini, direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’Irccs San Raffaele di Roma, è ancora presto per prefigurarsi scenari futuristici come quelli annunciati da Musk. “Intanto perché già numerosi tentativi precedenti sono stati fatti con un approccio simile da un punto di vista teorico (anche se, ovviamente, le tecnologie diventano sempre più avanzate in termini di miniaturizzazione del device e di autonomia delle batterie) con impianti di microelettrodi su piastrine inserite chirurgicamente sulle aree motorie, visive e acustiche in varia tipologia di malati e poi perché per ora sappiamo solo che il paziente si sta riprendendo bene dall’intervento e che i contatti tra microelettrodi e neuroni sono funzionanti”, argomenta Rossini. Le prossime giornate e settimane saranno determinanti per comprendere se e quanto questo tipo di approccio potrà dare le risposte paventate. “Parliamo di pazienti completamente paralizzati per i quali un device di questo tipo può rappresentare un ‘ponte’ verso il mondo circostante per accendere/spegnere un apparecchio, per comunicare, per spostarsi con una sedia a rotelle etc. – puntualizza il neurologo – si dovrà dunque verificare quante volte il comando inviato dal paziente viene interpretato in modo corretto dall’apparecchio e viene quindi eseguito con efficacia e quanti errori e di quale portata (anche in termini di rischio) esso compie. Si dovrà verificare la durata della bontà del contatto nel tempo perché attorno alla punta degli elettrodi si crea una reazione fibrosa che ne diminuisce l’efficacia. Valutare poi il rischio di interferenze con le onde elettromagnetiche emesse da comuni apparecchiature e che riempiono oggi l’ambiente di una casa normale. Si dovrà verificare se la presenza di microelettrodi inseriti in corteccia induca una irritazione dei neuroni penetrati dagli elettrodi con relativo aumento del rischio di epilessia“. Dunque pensare già oggi di “utilizzare questo tipo di approccio in casistiche estese e in patologie di grandi numeri come i pazienti colpiti da stroke, da Parkinson e addirittura da malattie psichiatriche è non solo molto prematuro, ma fuorviante perché induce speranze del tutto immotivate in malati e famiglie già troppo provati dalle loro condizioni”.

 

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