Tbilisi (Georgia), 7 lug. (LaPresse/AP) – Eduard Shevardnadze è morto oggi a Tbilisi, in Georgia, all’età di 86 anni. Conosciuto come ‘la volpe’, Shevardnadze è diventato famoso sulla scena internazionale durante gli ultimi anni dell’impero sovietico, contribuendo alla caduta del muro di Berlino e alla fine della Guerra fredda. Come leader post sovietico, però, la sua carriera si concluse nell’umiliazione quando fu cacciato dal Parlamento georgiano e costretto al ritiro.

Nato 1928, nel villaggio di Mamati vicino alla costa del Mar Nero della Georgia, Shevardnadze era il quinto e ultimo figlio di una famiglia rurale che si augurava per lui una carriera medica. Invece, a 20 anni aderì al Partito comunista sovietico. Con la campagna anti corruzione, catturò l’attenzione dei funzionari sovietici a Mosca tanto che nel 1972 fu nominato capo del Partito Comunista della Georgia. Nel 1985, con l’elezione di Michail Gorbacev a leader dell’Unione Sovietica (Urss) e nell’ambito dell’inserimento nel governo di giovani riformisti, venne nominato ministro degli Esteri, in sostituzione di Andrej Gromyko, detentore della carica da 28 anni. Impressionando i leader occidentali con il suo carisma, fu uno dei primi politici dell’Urss a perseguire le politiche della Perestrojka, della Glasnost e della Distensione.

Nel 1989 spinse per il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan, firmò gli accordi storici sul controllo degli armamenti e contribuì alla riunificazione della Germania nel 1990. Una soluzione che i leader sovietici avevano a lungo temuto e a cui si erano fermamente opposti. Per questo, nell’ex Urss, i nostalgici del ritorno alla status di superpotenza sovietica collocarono Shevardnadze nella serie degli imperdonabili insieme con Gorbacev. Il 20 dicembre 1990, dalla tribuna del IV Congresso dei deputati del popolo, Shevardnadze annunciò le sue dimissioni “in segno di protesta contro la dittatura imminente” e uscì dai ranghi del partito comunista. Nel novembre 1991, su invito di Gorbacev salì di nuovo a capo dell’allora ministero delle Relazioni esterne, ma un mese dopo si dimise ufficialmente quanto l’Urss si sciolse.

Nel 1992, dopo che un colpo di stato rovesciò il primo presidente eletto in Georgia, Zviad Gamsakhurdia, Shevardnadze divenne il leader del Paese, nominato presidente del Consiglio di Stato della Repubblica caucasica, ossia un Parlamento provvisorio. Nel 1995 vinse le elezioni con un consenso di oltre il 72%, dopo che il Paese adottò una nuova Costituzione. Nel 2000 fu rieletto presidente della Repubblica della Georgia, con più dell’82%. Venne deposto tre anni dopo da Mikhail Sakashvili, con la Rivoluzione delle rose del 23 novembre 2003, che portò il Paese nell’orbita occidentale. Sopravvissuto a due tentati omicidi, negli anni di governo Shevardnadze ha gestito un Paese in grave difficoltà economica. La Georgia aveva perso le consegne di lavoro per le fabbriche dell’epoca sovietica. Ogni inverno, i georgiani subivano interruzioni di gas ed energia elettrica.

A dispetto di quanto dichiarato quando era a capo del partito comunista georgiano, sotto il suo governo la corruzione dilagò in tutto il Paese. Shevardnadze guidò la Georgia nel Consiglio europeo, dichiarando che Tbilisi avrebbe un giorno “bussato alla porta della Nato”. Frase che fece irritare Mosca. Negli anni, il governo degli Stati Uniti concesse milioni di dollari in aiuto alla Georgia, nella speranza di mantenerla nell’orbita occidentale. Shevarnadze era vedovo. La moglie Nanuli, giornalista, morì nel 2004. La coppia aveva due figli e quattro nipoti.

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