In Italia è ricordato per la medaglia d'argento conquistata alle spalle di Stefano Baldini, nella maratona olimpica di Atene 2004

In Italia se lo ricordano per quell’argento vinto alle spalle di Stefano Baldini, ad Atene. Ma il rapporto di Meb Keflezighi con il nostro Paese nasce prima, quando vi arrivò – grazie alla generosità di un italiano – a dieci anni dall’Eritrea, prima di trasferirsi un paio d’anni dopo negli Stati Uniti sotto la cui bandiera partecipato ad altre due Olimpiadi. “Ma la vittoria più significativa della mia vita forse è quella della maratona di Boston, l’anno dopo le bombe“, racconta a LaPresse.
 
 
 
DOMANDA. Nel 2004 entrò al Panathinaiko dietro il nostro Baldini.
 
 
RISPOSTA. Stefano Baldini fece una gara molto intelligente. Ma ce lo aspettavamo, lui era una superstar, un campione mondiale, io ero alle quarta maratona, ero un ‘rookie’, un novellino. Ha fatto delle scelte intelligenti, soprattutto quando mancavano 5 km alla fine e  mi ha distanziato, ho esitato a stargli dietro. Abbiamo fatto una gara fenomenale, semplicemente lui ha avuto una giornata migliore della mia. All’arrivo l’ho guardato ed era molto stanco, sapevo che aveva dato tutto e così anche io, per questo ero molto contento della sua gara. Per me è un amico, mi fa sempre piacere quando lo incontro alle gare, per esempio a New York.
 
 
 
D. L’Italia però la conosce bene. Lei arrivò qui con la sua famiglia per fuggire dall’Eritrea e raggiungere suo padre.
 
 
R. E’ vero, quando ero bambino ho vissuto a Milano e Monza, sono arrivato dall’Eritrea che avevo dieci anni e sono andato via che ne avevo 12. Gli amici mi chiamavano Pelè, perché all’epoca avevo i capelli come lui e giocavo bene a calcio. Mio papà era lì a lavorare, ma la mia storia non sarebbe stata possibile senza Luigi Brindicci, che gli donò i soldi necessari a far arrivare qui anche me, mia madre, i miei sei fratelli.
 
 
D. Come andò?
 
R. Era il 1986, un giorno chiese a mio padre: “Come mai lavori così duramente?” E lui rispose “Per salvare la mia famiglia”. Gli chiese “Quanto ti serve?” “Dieci milioni, perché tutti possano raggiungermi”. Allora riandicci disse “torna mercoledì”. Bene, il mercoledì mio padre tornò gli diede dieci milioni in contanti, dicendo “è un regalo, vai a salvarli”.
 
 
D. Parla ancora italiano?
 
 
R. Un tempo sì, ora lo capisco, riesco a dire qualche parola ma non molto. La mia maestra dell’epoca dice sempre che dovrei venire un mese e lo imparerei di nuovo. Si chiama Angela Lippi, sono stato a trovarla dopo le Olimpiadi del 2012 con mia moglie. Ho rivisto anche una mia vecchia compagna di classe, Marta Menin, ci siamo sempre tenuti in contatto, ci sentiamo ancora dopo 35 anni.
 
 
D. L’immigrazione dall’Africa dopo tanti anni è ancora un tema molto caldo in Italia.
 
 
R. Sono vicino agli italiani e agli immigrati che cercano un’opportunità ma se l’Italia e pochi altri Paesi prendono tutti gli immigrati perché sono sulla costa è un problema, perché vuoi essere ospitale, vuoi aiutare le persone ma rischi di essere sopraffatto. Seguo le notizie e mi rattristano molto, capisco che la situazione è critica, gli italiani stanno provando a gestire la situazione ma è difficile, chi arriva da voi cerca una vita migliore ma serve rispetto reciproco perché le cose funzionino. Io sono stato fortunato, con me gli italiani sono stati gentilissimi, e senza la loro generosità la mia vita non sarebbe stata quella che è stata. Nel 2012 quando sono venuto lì il dottor Brindicci era scomparso da poco, ma suo figlio mi ha mostrato grande calore, mi chiamava fratellino, aveva la mia foto sulla scrivania.
 
 
D. Correva già quando viveva in Italia?
 
R. No, per nulla. Ho fatto solo una gara in pista, un 3mila una volta a Roma, mai corso in strada. Ora non gareggio più a livello competitivo, spesso faccio da pacer alle gare o comunque partecipo alle iniziative di socializzazione che spesso vengono organizzate , mi piacerebbe venire da voi se ce ne fosse l’opportunità. Buon cibo, bella gente, sarebbe divertente…
 
 
D. Lei ha vinto le maratone di New York e Boston. Quale le è più cara?
 
 
R. Entrambe sono molto importanti per me. Già la medaglia d’argento nel 2004 mi aveva proiettato nello scenario internazionale. Nel 2007 mi sono infortunato molto seriamente, mi sono rotto l’anca durante i trial per le Olimpiadi a Central Park e ho saltato i Giochi di Bejing. Per un momento ho pensato di dovermi ritirare. Ma poi ho creduto in me stesso e nel mio team. Mi sono allenato duramente e nel 2009 ho avuto l’onore di essere il migliore americano in 27 anni proprio lì, a New York, battendo due dei migliori maratoneti al mondo. E’ stata una grande vittoria ma forse quella con più significato è Boston. Per quello che era successo l’anno prima, con l’attentato del 2013, per me che avevo ormai quasi 39 anni, ero un immigrato, avevo meno dell’1% di probabilità di vincere quella gara, pensavo che fosse la mia ultima Boston. Ma Dio aveva altri piani per me, ho avuto l’opportunità di fare qualcosa di grande davanti a 36mila persone, di fare qualcosa di diverso per aiutare lo sport. E’ stato bellissimo come vincere una medaglia d’oro o New York, e sono grato per tutte queste esperienze.
 
 
D. Qual è secondo lei la parte più dura di una maratona?
 
R. I due o tre minuti precedenti la partenza! Devi assicurarti di avere tutto in ordine. E sai che a un certo punto farà male, sai che a un certo punto della gara, che sia al 17simo ,al 20simo, al 21simo miglio, dovrai avere un atteggiamento competitivo, decidere rapidamente e in maniera intelligente cosa fare, se un gruppo di dieci persone si stacca devi andare con loro, se è solo uno che strappa magari puoi pensare di raggiungerlo dopo. E’ un gioco mentale molto duro, e poi quando la testa ti dice “vai” e il corpo “no” quella è la maratona. Mi è successo molte volte, la verità è che fa sempre male e bisogna essere preparati.
 
 
D. Lei è per lo più conosciuto come maratoneta, ma ha corso su tante distanze nella sua carriera. Quale è la sua preferita?
 
 
R. Non ho mai gareggiato su quella distanza ma probabilmente la mia migliore prestazione l’avrei avuta su una dieci miglia. La maratona può essere molto sfidante e difficile, ma allo stesso tempo le 5 e le 10  chilometri sono splendide. Molto dipende dalle tue condizioni di forma, da dove metti l’obiettivo. Quando me lo chiedono dico che la mia gara preferita è quella per cui ho la condizione migliore. Sono stato detentore del record americano sui dieci chilometri, il cross country mi piaceva molto, ho fatto tante gare in pista sui 5 km e i 10 km e lì sono davvero lunghi.
 
 
D. Che consigli dà a chi corre?
 
 
R . La maratona devi rispettarla, ma io consiglio a tutti di correrne almeno una nella vita perché è davvero un’esperienza. Puoi essere nel gruppo di testa, o in mezzo agli altri, ma quello conta davvero per tutti è migliorare sempre, fai un tempo e poi lavorare abbassarlo di qualche minuto, anche se il giorno dopo la gara pensi ‘oddio sto malissimo, non posso camminare’ ma poi ti riposi, due settimane o un mese dopo sei pronto a riprovarci. Nella mia prima maratona correvo per vincere, al 16imo – 17imo miglio ho lanciato gli occhiali, il cappello, mi sentivo benissimo, e poi ho iniziato a rallentare, e rallentare ancora, Ho mancato le qualificazioni alle Olimpiadi per 35 secondi, ero fuori di me, avevo corso 26,2 miglia e avevo fallito per 35 secondi. Poi sono tornato in Eritrea, ho visto come viveva la gente nel mio paese d’origine e questo mi ha aiutato a rimettere le cose nella giusta prospettiva. Avevo corso benissimo per le prime 18-20 miglia, quello che dovevo fare era allenarmi meglio, fare un buon lavoro, e questo è quello che ho fatto. Non ho mai mollato perché avevo la percezione di poter migliorare. Si tratta di allenarsi bene, mangiare bene, riposarsi bene. Per noi elite sembra più facile, ma non è mai facile che si tratti di vincere la gara o fare il proprio miglior tempo.
 
 
D. Nella sua carriera lei ha avuto alcuni infortuni seri. Capita anche ai runner amatoriali di farsi male, magari durante la preparazione di una gara e dover rinunciare l’obiettivo. Come gestirli e non scoraggiarsi?
 
 
R. Nel 2005 ho avuto uno dei peggiori infortuni, il mio amico Mario Scerri, patron di Human Tecar, era lì, li sentivo parlare in italiano con grande preoccupazione del mio quadricipite rotto e ho detto ‘ ehi io vi capisco!’. Gli infortuni sono parte dello sport, le delusioni sono parte della vita, non mi sono mai operato ma ho avuto due lesioni al quadricipite, una frattura da stress al bacino, problemi al tendine d’achille, al ginocchio, ma è normale spingi il tuo corpo al limite e rischi di farti male. Quello che è importante è dare il giusto tempo per recuperare. Se senti che ti fa male il tendine d’achille è un segnale che il tuo corpo e la tua testa non sono sulla stessa pagina, allora è meglio riposarsi un giorno, una settimana, non precipitarti per forza sulla linea di partenza. Fa parte dell’allenamento mentale, saper prendere prendere la decisione più intelligente. Quando mi sono rotto il quadricipite mi hanno detto ‘inizia a camminare mezzo miglio’ e ho risposto ‘e che mi fa camminare?’.  Ma devi mettere le cose in prospettiva, fai un miglio, poi due, poi 5 km, poi dieci, la forma fisica torna grazie alla memoria dei tuoi muscoli, il tuo corpo ricorda l’allenamento, devi fare sì che il tuo corpo recuperi perfettamente. La tecnologia per fortuna ci aiuta ma bisogna dare al corpo il giusto tempo anche in questo.
 
 
D. La sua filosofia è ‘run to win’, correre per vincere.
 
 
R. Run to win non significa correre per arrivare primi, ma per fare il meglio che si può. Gli infortuni semplicemente accadono, magari vedi tutti gli altri che corrono ma sai cosa c’è?  Non bisogna scoraggiarsi, dagli infortuni si torna più forti. Non ci si infortuna stando sul divano, capita quando si prova ad allenarsi per fare del proprio meglio, si fa un passo indietro per farne due avanti. Devi dirti ‘ehi ce la posso fare, posso lavorare più duramente, in modo più intelligente,e recuperare dai miei infortuni’. C’è sempre un altra gara da correre, che sia una 10 chilometri, una mezza maratona, una maratona intera, bisogna cercare sempre di fare il proprio meglio di se stessi. Non bisogna porsi dei limiti, ognuno ha un talento diverso e possiamo sfruttarlo al massimo.

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