Il Nobel per la Pace in carcere dopo il golpe dell'esercito
Da icona della democrazia in Birmania – ai domiciliari più volte nel corso di circa 20 anni sotto la giunta militare – alle accuse di genocidio per le violenze contro la minoranza musulmana Rohingya. È la parabola di Aung San Suu Kyi, ora arrestata ancora una volta nel contesto del nuovo golpe dell’esercito.
Nata nel 1945, oggi 75enne, Suu Kyi è figlia del generale Aung San, eroe dell’indipendenza birmana, assassinato poco prima che il Paese ottenesse l’indipendenza dal Regno Unito nel 1948, quando lei aveva appena due anni. Ha trascorso molti anni all’estero, in particolare proprio nel Regno Unito: studiò a Oxford e nello stesso Paese si stabilì poi con il marito, il britannico Michael Aris, per crescere i due figli. Un dettaglio importante questo, visto che è proprio in virtù del fatto che ha due figli di nazionalità straniera che in Birmania le è stato impedito di diventare presidente.
Rientrata nel suo Paese nel 1988, cominciò a prendere parte attivamente alle proteste per chiedere riforme democratiche ed elezioni libere, ispirandosi alle campagne non violente di Martin Luther King negli Usa e del Mahatma Gandhi in India. L’anno dopo il golpe del 1988, fu messa ai domiciliari e vi restò per sei anni: rilasciata nel 1995, fu di nuovo arrestata a settembre del 2000 fino a maggior del 2002, per poi tornare ai domiciliari l’anno successivo.
Il rilascio giunse solo nel 2010, anche dopo forti pressioni internazionali. Intanto nel 1991 le era stato assegnato il premio Nobel per la Pace, che per lei che era agli arresti fu ritirato dal figlio. A livello internazionale fu riconosciuta come volto delle speranze democratiche del Paese: il consiglio Comunale di Oxford la scelse nel 1997 per l’onorificenza ‘Freedom of the City’ e nel 2009 Amnesty Internatoinal la insignì del premio di ‘ambasciatrice di coscienza’. Entrambi i riconoscimenti, però, le furono revocati nel 2017 e 2018, quando sul personaggio di Suu Kyi alle luci cominciarono ad accostarsi anche ombre.
Era infatti lei al potere quando nel 2017 esplose la crisi dei Rohingya. Nell’agosto di quell’anno insorti della comunità Rohingya attaccarono postazioni della polizia nello Stato occidentale di Rakhine: ne seguì una violenta repressione da parte dell’esercito, che portò centinaia di migliaia di musulmani Rohingya a fuggire nel vicino Bangladesh. Suu Kyi era leader de facto del governo dopo che nel 2015 aveva vinto le elezioni (la posizione di ‘state counsellor’ venne creata appositamente perché lei guidasse il governo, pur se le veniva impedita la presidenza). ‘The Lady’, come è nota in patria, difese personalmente l’operato dell’esercito all’Aia, davanti alla Corte penale internazionale, dove la Birmania ora affronta accuse di crimini contro l’umanità. Sostenne che i militari applicassero lo Stato di diritto. Questo, oltre alle critiche per l’uso di leggi di epoca coloniale per processare giornalisti e attivisti durante il suo periodo al potere, segnò sicuramente un momento di svolta per la reputazione di Suu Kyi.
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