Roma, 24 lug. (LaPresse) – “Vogliamo che ci siano spazi umanitari rispettati e che le strutture sanitarie siano rispettate. Quello che è successo all’ospedale al-Aqsa di Deir el-Balah non è accettabile”. Tommaso Fabbri, raggiunto telefonicamente da LaPresse, è il capomissione di Medici senza frontiere in Israele. Da Gerusalemme coordina il lavoro della squadra internazionale dell’organizzazione medica umanitaria a Gaza: otto persone (tra cui sei medici). “Io sono in contatto costante con l’equipe – spiega -. Le giornate sono pesanti, è scioccante quello che vedono. Fanno turni massacranti, poi alla fine della giornata vanno a dormire tra il rumore delle bombe”.
Lavorano all’ospedale al-Shifa di Gaza, la principale struttura sanitaria della Striscia. Sono in sala operatoria, nel pronto soccorso e nella sala di terapia intensiva. “Il mio ruolo – continua – è quello di cercare di aiutare i membri della nostra squadra nelle decisioni, di coordinarli e prendere le decisioni con loro per metterli in condizione di lavorare il meglio possibile e ridurre i rischi al minimo”. Con Msf lavora anche una settantina di operatori palestinesi, divisi in diversi ospedali.
“La situazione – denuncia – è drammatica. Abbiamo bisogno di garanzie. Chiediamo il rispetto della Convenzione di Ginevra per il rispetto del diritto umanitario. Questo è il minimo che deve essere garantito da tutte le parti. I civili che sono le prime vittime del conflitto. Serve un accesso a livello umanitario, i civili non devono essere colpiti e noi dobbiamo essere messi in grado di curarli”. E ad al-Shifa non ci sono solo i feriti: “Ci sono circa duemila persone nel compound dell’ospedale. Non sono malati – spiega – cercano solo rifugio, perché si suppone che quello sia un luogo sicuro. Le popolazioni civili non hanno un posto dove scappare”.
Msf in Palestina non ha solo l’equipe di Gaza: ha una base anche a Nablus, in Cisgiordania, che fa soprattutto un lavoro di sostegno psicologico. “Dopo la sparizione dei tre ragazzi israeliani – racconta Fabbri – ci sono state settimane di raid, soprattutto a Hebron e Nablus. L’esercito israeliano entrava nelle case di notte, eseguiva arresti e perquisizioni. Bambini e donne ma anche molti uomini sono rimasti traumatizzati. Noi facciamo un lavoro di primo sostegno psicologico. Poi, se sono stati veramente traumatizzati, li seguiamo in psicoterapia. Cerchiamo di intercettare le famiglie più in difficoltà per dare l’aiuto psicologico necessario”.
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