La sorella a LaPresse: "Sono stati anni di sofferenza e tristezza ma anche di grande eredità per ciò che ha lasciato"
Sono da poco passate le 7 del 19 marzo. E’ il 1994, trent’anni fa. Don Peppe Diana è pronto per celebrare la messa nella chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, comune del casertano. A quei tempi lì la camorra la faceva da padrona, instaurando un regime di terrore e violenza. E lui la combatteva su tutti i fronti. Un sicario entra nella parrocchia, chiede “chi è don Peppe?”. Lo raggiunge in sacrestia ed esplode 5 colpi di pistola, tutti a segno, uccidendolo sul colpo. Quel delitto è passato alla storia, probabilmente l’unico caso in una chiesa.
Da quel giorno sono passati 30 anni, e la morte di don Diana ha smosso le acque. “Quel 19 marzo ci ha stravolto la vita. Sono passati 30 anni di sofferenza e tristezza, ma anche orgoglio per la grande eredità che ha lasciato. La sua memoria deve essere sempre viva”. A ricordarlo a LaPresse è Marisa, la sorella. Un omicidio efferato, in un luogo che ha sempre rappresentato un’area intoccabile per la camorra, fino ad allora almeno. “Non ce l’aspettavamo – racconta Marisa – Mai avremmo pensato che fosse ucciso in chiesa mentre lavorava. Era un prete che annunciava le verità di fede, giustizia, verità. Quando arrivò quella notizia ci ha straziato. La consapevolezza, però, è che quella morte ha anche cambiato la storia di un territorio difficile”.
E pure nella prima fase delle indagini, contro don Peppe viene innescata una macchina del fango. Emergono voci e indiscrezioni su possibili legami con i clan, come custode di armi, o che lo dipingono come frequentatore di donne. “La macchina del fango ha voluto far uscire una figura di don Peppe che non corrispondeva alla verità. Mia mamma, ogni volta che veniva fuori una notizia infamante sui giornali mi diceva “me lo ammazzano tutti i giorni”. Sono stati anni terribili per noi, nei quali per fortuna è stato fatto tanto nel suo nome. Poi è uscita la verità. Mio fratello era un uomo che si prodigava per il bene dei giovani in un territorio molto particolare”, racconta la sorella.
Un delitto che ha risvegliato quelle terre: “Oggi i giovani sono liberi, prima avevano paura anche solo di menzionare la parola camorra. Un sacrificio che ha portato una ventata di rinascita”, spiega Marisa. Una vita dedicata a onorare la memoria del fratello, partendo dalle scuole: “Ai giovani quello che voglio dire è di continuare sulla strada di don Peppe, con i valori nei quali lui credeva e per i quali è morto. Devono essere liberi – ha aggiunto – senza ostacoli o oppressioni. I giovani devono portare avanti la memoria che deve tradursi in impegno, altrimenti è vana. Noi familiari di vittime innocenti andiamo nelle scuole a parlare con i ragazzi, perché non vogliamo che succeda ancora. Un messaggio di pace, amore libertà quello che ci ha lasciato mio fratello”. Impegno che porta avanti anche Augusto Di Meo, che quel 19 marzo era in chiesa e ha visto tutto, aiutando a catturare il killer: “La camorra non è stata sconfitta del tutto, è cambiata. Oggi non si spara perché non conviene. Oggi studiano anche loro, si sono inseriti nelle pubbliche amministrazioni. Ci vuole un’attenzione particolare. Occorre essere sentinelle del territorio e non accettare compromessi. Io continuo a farlo, è una responsabilità che mi porterò fino alla morte. In questi 30 anni ho cercato di seguire e diffondere gli insegnamenti di don Diana, ho incontrato 70mila persone, e vado sempre nelle scuole per parlare con gli studenti. La leva bisogna farla sui giovani, fare formazione. Bisogna dirgli da che parte stare. Oggi ci sono più strumenti, se stai dall’altro lato, quello della camorra, o vai in galera o al cimitero. Dall’altro lato si vive meglio, anche se con più sacrifici. Un investimento sulla formazione è primario”.
A 30 anni di distanza è ancora nitido quel ricordo in Di Meo, fotografo di professione: “Ce l’ho in mente tutte le mattine, una cosa che non si può dimenticare. Ma quell’omicidio ha fatto rinascere un popolo”.
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