Il campione restituisce a un'intera nazione l'orgoglio smarrito

Una notte lunga 116 anni. Un oro che sfuggiva rendendosi inguaribile utopia. Un sortilegio che, come nel più classico dei romanzi fantasy, solo una magia poteva spezzare, e per quella magia serviva l'intervento risolutivo dell'eroe della storia. Sin dall'inizio del romanzo olimpico di Rio, Neymar da Silva Santos Júnior ha indossato gli scomodi panni del Predestinato. Ai piedi del suo Rei, condottiero-simbolo-faro non immune da critiche e discussioni, un'intera nazione chiedeva di essere scortata per mano fuori dall'oscurità nella quale i signori del pallone, per errori, sfortuna, egoismi, si sono gradualmente cacciati. Esorcizzando, in un sol colpo, imbarazzi e paure inconciliabili con il calcio allegria e fantasia del 'pais del futbol'.

Il destino ha apparecchiato per il Predestinato l'epilogo perfetto. Di fronte al capitano e ai suoi compagni di battaglia, in quello stadio che evocava antichi spettri, si stagliava l'imponente figura della Germania madre di tutti gli incubi verdeoro. Il fantasma che ha condannato la Selecao e duecento milioni di persone ad avere il cuore marchiato per sempre da quello sciagurato 7-1 di due anni fa, a Belo Horizonte. Neymar, fermato da una gentile ginocchiata di Zuniga, la notte in cui i sogni Mondiali del Brasile si spensero in uno scenario da tregenda non era in campo. Ma non per questo, dentro di lui non fermentavano propositi di vendetta. Per i suoi compagni, per il paese tutto.

Nell'ultimo e decisivo atto, il passato non poteva e non doveva mettere piede sul terreno di gioco. I fischi e le accuse di inizio torneo, innescati da due scialbi quanto preoccupanti 0-0 e l'incubo eliminazione all'orizzonte, con i tifosi che invocavano ironicamente il simbolo della Nazionale donne Marta, dovevano restare dentro il tunnel del Maracanà. Contava solo il presente, l'appuntamento con la storia scandito in 90 minuti, che poi si sarebbero trasformati in 120 più gli interminabili istanti dei rigori. "Qui non è il Mineirao", avverte uno striscione sugli spalti. Il Predestinato è consapevole che la storia transita dai suoi piedi fatati. E lo dimostra pennellando una punizione alla Zico che manda in delirio il Maracanà. Ma la fredda e robusta Germania non è il placido ed innocuo Honduras affrontato nella passeggiata di semifinale. I compatti ed organizzati europei spaventano a più riprese i sudamericani e le loro invenzioni, timbrano tre traverse e forse è su quei legni che gli Dei del calcio, da lassù, lasciano i più significativi indizi di come sarebbe andata a finire.

 

IL BRASILE CONQUISTA L'ORO: GUARDA LA GALLERY

 

I demoni non si scacciano tutti di un colpo. Ecco perché Meyer getta una secchiata di acqua gelida sulle gole ruggenti del pubblico verdeoro con la rete dell'1-1. La risalita verso il Paradiso chiede ancora uno sforzo supplementare, l'ultimo ostacolo sulla strada dell'eroe Neymar. L'insaziabile sceneggiatore della notte del Maracanà ha in mente un finale memorabile per il Predestinato. Gli assegna la scottante responsabilità del quinto rigore, che potrebbe essere quello decisivo o un tiro perfettamente inutile. Quindi, dopo i quattro penalty impeccabili dei tedeschi, dipinge il tuffo con cui l'eroe per caso Weverton, altro predestinato di un romanzo nel quale è entrato appena tre giorni prima dell'inizio dei Giochi, ipnotizza Petersen. Al destino manca ormai solo più un tassello per completare l'opera. Una nazione intera trattiene per secondi che paiono secoli il respiro mentre il Rei si avvicina lentamente al dischetto e piglia la rincorsa più lunga della sua vita in Selecao. Lui dirà, a fine gara, che l'unico pensiero che gli ronzava in testa in quell'istante era "dovevo fare quello che dovevo".

Il pallone scagliato alle spalle di Horn, comandato dalla freddezza mancata al compagno di club Messi con la grande rivale Argentina, conduce il romanzo fantasy verso l'ultimo capitolo. Il completamento dell'epilogo perfetto. La postfazione che contiene le lacrime, la gioia della riscossa, il gusto della vendetta, la fine delle paure e del complesso di inferiorità. Un oro olimpico, seppure storico, può riscattare solo in parte la disfatta del Mineirazo e la cosa sarà implacabilmente più chiara con il trascorrere degli anni. Resta però, nella magica serata di Rio, la ritrovata consapevolezza nei propri talenti dei signori verdeoro del pallone. Insieme ad un preciso messaggio lanciato alle rivali del globo: il posto del vero Brasile non è nel sottoscala, ma nell'attico principale. E a spingerlo in alto non può che essere il ragazzo che ha restituito ad un'intera nazione l'orgoglio smarrito.
 

© Copyright LaPresse - Riproduzione Riservata