L'attore due volte premio Oscar grazie a Quentin Tarantino apre gli Incontri Ravvicinati della Festa del cinema di Roma
“Odio i selfie e i social media”, questa la prima frase che esce dalla bocca di Christoph Waltz, appena entrato nella Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica, quando qualche fan prova ad alzarsi in piedi mostrando uno smartphone. Se da una parte riprende così il ruolo di ‘cattivo’ con cui ha raggiunto la fama in tutto il mondo, conferma di essere un'anti-star hollywoodiana. Forse perché al cinema americano è arrivato dopo 35 anni di tv e film austriaci e tedeschi, ora non teme di parlarne con disincanto e di distruggerne gli stereotipi.
“Ho interpretato oltre cento personaggi, vi assicuro che non sono sempre stato il villain”, dice al direttore artistico Antonio Monda, che con questa chiacchierata inaugura gli Incontri Ravvicinati della dodicesima edizione della Festa del cinema di Roma. “La ragione è puramente economica se da quando sono arrivato a Hollywood mi propongono sempre ruoli da antagonista. Mi hanno visto recitare come villain in un film che ha fatto successo e sono convinti che avendomi come villain nel loro film anche quello funzionerà”.
E allora non sorprende che quando Monda gli chiede di scegliere tre film non ce ne sia neanche uno statunitense: Il momento della verità di Francesco Rosi, Vivere di Akira Kuroswa e I vitelloni di Federico Fellini. “Tutti e tre raccontano le storie di persone che vogliono trovare un posto nel loro mondo, nel loro tempo, nella loro società, ma vogliono farlo cambiando le cose. Tutti e tre – spiega Waltz – parlano del desiderio di fare la differenza, ma ognuno utilizza una diversa prospettiva”.
Sugli attori presi a modello nella sua carriera invece non sa rispondere. “L’ammirazione non deve diventate ideologia. Non credo si possa tenere un attore come riferimento per tutta la vita. Quando avevo vent’anni – ricorda – pensavo che Marlon Brando fosse il migliore di sempre, ma ora molte delle cose che ha fatto non riesco nemmeno a vederle. Innanzitutto perché sono cresciuto come attore e non sempre il tuo riferimento può seguirti mentre ti evolvi nella professione, ma anche perché chi hai scelto di riferimento non sempre fa delle grandissime cose”.
L’austriaco ne ha anche per il metodo dell’ 'actor studio'. Quando Monda lo cita, lui alza gli occhi al cielo e dice: “Penso che la preparazione per entrare in un personaggio sia abbastanza sopravvalutata. L’aspetto più importante di un attore è ancora l’immaginazione, per quanto mi riguarda”.
E poi, ovvio, conta molto anche il regista con cui ci si trova a lavorare. Quando è il momento di parlare di Quentin Tarantino, per esempio, tutte le critiche spariscono. D’altronde è lui che l’ha ‘scoperto’, affidandogli il ruolo del nazista Hans Landa in Bastardi senza gloria, diventato in pochi anni un cult e, tre anni dopo, quello del dottor King Schultz in Django Unchained: due interpretazioni, due premi Oscar. “Non c’è improvvisazione quando sei sul set di Tarantino: non ce n’è bisogno. Lui ha in mente – spiega Waltz – ogni sfumatura, ogni minimo particolare e nella sceneggiatura scrive ogni cosa. È ciò che amo più di lui, la sua scrittura. È un ottimo regista, in grado di enfatizzare ogni scena, ma questo è possibile perché il punto di partenza è una sceneggiatura perfetta”.
E anche se è colpa proprio di Quentin Tarantino se non riesce togliersi di dosso la veste di ‘bad guy’ poco importa. “È infinitamente più divertente fare il villain. L’eroe ha solo la possibilità di essere buono, mentre il cattivo ha infinite possibilità: è l’elemento che porta il conflitto e la drammaticità nel film, per questo è solitamente il personaggio più interessante”.
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