Il ministero delle Comunicazioni ha revocato la decisione e ordinato di restituire il materiale sequestrato all'agenzia di stampa

La decisione del ministero delle Comunicazioni israeliano di sequestrare le apparecchiature video con cui l’Associated Press trasmetteva in diretta video dal Sud di Israele, nei pressi della Striscia di Gaza, scatena le polemiche tanto da costringere il governo Netanyahu a fare marcia indietro nel giro di poche ore. In tarda serata il ministro delle Comunicazioni israeliano, Shlomo Karhi ha infatti reso noto di aver revocato la decisione e ordinato di restituire il materiale sequestrato, necessario per le dirette video, ad AP.

A denunciare l’accaduto era stata la stessa agenzia di stampa americana. “L’Associated Press critica con la massima fermezza le azioni del governo israeliano volte a bloccare la nostra trasmissione in diretta, che da tempo mostra una vista su Gaza, e a sequestrare le attrezzature dell’AP”, ha dichiarato Lauren Easton, vicepresidente delle comunicazioni aziendali. “L’interruzione non è dovuta al contenuto della trasmissione, ma piuttosto a un uso abusivo da parte del governo israeliano della nuova legge sulle emittenti straniere“.

La motivazione addotta dal governo israeliano risiede infatti nel fatto che uno dei clienti a cui AP fornisce le sue dirette video è Al Jazeera, la tv del Qatar di cui lo Stato ebraico ha bandito le trasmissioni nel Paese. La Casa Bianca ha definito l’accaduto “preoccupante” ribadendo come sia “essenziale” che i giornalisti siano in grado di fare il proprio lavoro. Il portavoce delle Nazioni Unite, Stephane Dujarric ha parlato di “shock” per la decisione israeliana e anche dal fronte interno sono piovute critiche nei confronti del governo Netanyahu.

Secondo il capo dell’opposizione Yair Lapid la confisca delle attrezzature di AP è “un atto di follia” in quanto si tratta di “un media americano che ha vinto 53 premi Pulitzer”. Intanto continua a tenere banco la vicenda della richiesta d’arresto formulata dal procuratore generale della Cpi nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e del ministro della Difesa, Yoav Gallant, oltre che di alcuni leader di Hamas. Israele ha esortato quelle che definisce “nazioni del mondo civilizzato” a rifiutarsi di attuare qualsiasi mandato di arresto che potrebbe essere emesso dalla Corte penale internazionale mentre Benjamin Netanyahu ha accusato frontalmente il procuratore Karim Khan di “gettare benzina sul sul fuoco dell’antisemitismo che si sta diffondendo in tutto il mondo”.

Secondo il leader del Likud la decisione della Cpi “è come dire dopo l’11 settembre: sto emettendo mandati di arresto per George Bush e anche per Bin Laden”. Netanyahu ha incassato il pieno sostegno degli Stati Uniti. Il presidente americano Joe Biden ha confermato che, a suo dire, “ciò che sta accadendo a Gaza non è genocidio” e il segretario di Stato Antony Blinken si è detto aperto alla possibilità di lavorare con gli esponenti repubblicani della commissione Esteri del Senato a un “provvedimento legislativo” contro la Cpi.

Israele ha incassato anche l’appoggio da parte dei partner occidentali, ma con alcuni distinguo. Il più rumoroso è quello della Francia. Parigi ha esortato a non tracciare una “equivalenza” tra le richieste di mandato d’arresto avanzate dalla Procura della Corte Penale Internazionale per i leader israeliani e quelli di Hamas ma allo stesso tempo ha sottolineato che la Francia “riconosce l’indipendenza” della Corte e quindi “spetterà ora ai giudici decidere se questi mandati verranno concessi, e lo faranno in modo indipendente”.

Si fa sempre più difficile infine la situazione a Rafah dove le Nazioni Unite hanno sospeso la distribuzione di cibo a causa di mancanza di rifornimenti e della situazione instabile. Abeer Etefa, portavoce del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite ha affermato che la situazione è “vicina al collasso”. Sempre in merito a Rafah gli Stati Uniti, secondo quanto riportato dai media americani, avrebbero convinto Israele a “mettere da parte” i piani per una grande offensiva di terra puntando a un approccio “più limitato”. 

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