A un anno dalla strage nella quale hanno perso la vita 14 persone, posizionata la lapide ai caduti. La procuratrice: "Ottenere giustizia è sempre stato il nostro obiettivo"

E’ una richiesta dolorosa di giustizia il filo rosso che unisce parenti e istituzioni a un anno dalla tragedia della funivia del Mottarone. “Vogliamo che sia fatta luce sulle responsabilità e la verità e vogliamo che facciano in fretta. Ci siamo sentiti abbandonati, lo Stato non ha fatto le condoglianze: questa vicenda è peggio del Ponte Morandi” dice Teresa Pelaggi, nonna di Mattia Zorloni e mamma di Elisabetta Personini, due delle 14 vittime di quel 23 maggio 2021. Lo dice mentre si incammina sulla vetta, verso la lapide ai caduti svelata proprio nel giorno dell’anniversario, a pochi passi da dove un anno fa, alle 12.20, una cabina della funivia è caduta, accartocciandosi sul pendio della montagna. Sullo sfondo, mentre venivano ricordate le vittime, i singhiozzi di alcuni dei parenti delle vittime. Tra loro anche Aya Biran, la zia paterna del piccolo Eitan, unico sopravvissuto, arrivata da Pavia. “Eravamo quasi riusciti ad andare oltre, ma oggi si riapre una ferita”, spiega un’altra donna in lacrime, che nell’incidente ha perso parte della sua famiglia.

“Abbiamo chiesto che si faccia giustizia in fretta ma sappiamo che i tempi della giustizia devono fare il loro corso. La città vorrebbe anche una rapida ricostruzione e rinascita ma oggi pensiamo alle vittime, non al futuro”, spiega la sindaca di Stresa Marcella Severino prima della cerimonia. Poi, davanti alla lapide, non trattiene le lacrime: “Quel giorno tra noi che siamo arrivati in vetta abbiamo parlato con gli occhi, occhi gonfi che urlavano in silenzio e poi una preghiera è uscita dal cuore per salutare le vittime”. E aggiunge: “Mi piace pensare che oggi con noi ci sono 14 ombre” aggiunge. “Chiedere giustizia non è ridare indietro le persone ma è un dovere che le istituzioni devono garantire” ha spiegato anche il governatore della Regione Piemonte Alberto Cirio, arrivato alla lapide per il suo svelamento pubblico: “Occorre ricordare perché non ci sia oblio”.

E a rimarcare questa richiesta di giustizia ci pensa don Gianluca Villa, che celebra la messa su, nel punto più alto del Mottarone, nella chiesa della Madonna della Neve: “Una mancata giustizia sarebbe un diabolico freno a mano contro la speranza e un cazzotto allo stomaco per tutti coloro che credono e lottano per la giustizia”, ha detto dall’altare. Ha parlato di un “terreno di guerra” perché “intriso di sangue innocente”. E anche lui ha chiesto con forza una ricostruzione, per far ripartire un territorio piegato dal dolore. Poi ha mosso un j’accuse ai responsabili, che saranno da trovare: per ora gli indagati sono 14 ma si attende l’esito delle perizie sulla rottura della fune entro il 30 giugno. “Teniamo i piedi per terra per individuare volti, manovre, scelte irresponsabili portate avanti non da fantasmi ma da precise persone”, ha chiesto ancora.

E se il Ponte Morandi è per i familiari simbolo dell’orrore, è anche simbolo di come sia possibile ricostruire in fretta: “Ho detto in passato – ha aggiunto Severino, prima cittadina di Stresa – che per la città era stato il nostro 11 Settembre. Abbiamo bisogno di giustizia ma anche di ripartire: per questo abbiamo chiesto un modello Morandi per la ricostruzione”. La presenza del governatore Cirio potrebbe essere un segnale.

Sullo sfondo resta la dolorosa vicenda del piccolo Eitan, conteso tra la famiglia paterna e materna, tra l’Italia e Israele. “Oggi siamo tutti sulla stessa barca, Peleg e Biran” dice l’avvocato Paolo Sevesi, che difende la famiglia materna che si trova in Israele: “In 15 secondi questa famiglia ha perso tutto”. In mattinata era arrivato da Tel Aviv un comunicato dei familiari tramite il portavoce, che chiedeva “che il tribunale di Milano e le persone coinvolte nel caso di Eitan vedano davanti ai loro occhi la sua bontà e correggano la terribile ingiustizia fatta a lui e a noi”, insistendo per portare Eitan fuori dall’Italia. Silenzio e privacy, la richiesta della famiglia paterna.

Alla commemorazione c’erano quasi tutti: le istituzioni, i parenti, le forze dell’ordine, i soccorritori e anche la procuratrice di Verbania Olimpia Bossi. Non c’erano membri del governo. “Rispondere alla richiesta di giustizia è sempre stato il nostro obiettivo – ha detto fuori dalla chiesa, visibilmente provata la procuratrice Bossi – Oggi è il momento della vicinanza a queste persone che hanno avuto un grandissimo coraggio a venire qui. Oggi è un giorno di silenzio e riflessione”. Poco prima aveva dichiarato che almeno per quanto riguarda la giustizia terrena, si cercherà di fare di tutto. Se tutti chiedono giustizia, un momento chiave sarà il 14 luglio, quando è prevista l’udienza per l’esposizione dei risultati delle perizie nell’ambito dell’incidente probatorio, salvo rinvii. Un primo passo verso la ricerca della verità su quanto accaduto.

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