Stanotte ultima gara in Nba per Kobe, cresciuto, anche cestisticamente, in Italia

Cireglio, frazione di Pistoia. Una borgata di circa 800 anime. Da qui nasce il mito di Kobe Bryant. Stanotte l'Nba vivrà l'ultima recita del 'Black Mamba', l'uomo che come Michael Jordan prima di lui ha ispirato un'intera generazione.  Cinque titoli ed una carriera ventennale vissuta tutta con la maglia dei Los Angeles Lakers, ma le radici cestistiche del ragazzo nato nel 1978 a Philadelphia sono però tutte italiane. Lo Stivale infatti è stato per diversi anni la casa del figlio d'arte Kobe che, a seguito del padre Joe, lo ha attraversato in lungo ed in largo dal 1984 al 1991. Rieti, Reggio Calabria, ma soprattutto Pistoia e Reggio Emilia. Questi i luoghi della sua infanzia dove ha imparato la lingua, le abitudini e lo stile di vita italiano oltre alla passione calcistica per il Milan. Al 'My Bar', punto di ritrovo della piccola frazione toscana, tutti conoscono Kobe e la sua storia. "Quando per la strada sentivi il rumore di un pallone che rimbalzava allora sapevi che stava arrivando Kobe con la sua inseparabile palla da basket", racconta Maurizio Sabatini, figlio del titolare. Una sorta di 'Holly' del celeberrimo cartone giapponese sul calcio.

In una calda mattinata del luglio 2013 Bryant, in vacanza in Italia, si presentò a sorpresa al locale poco dopo le 7 per fare colazione in t-shirt, bermuda e rigorosamente senza scorta. "Mio padre mi chiamò al telefono per dirmi che c'era Kobe al bar, ma io non gli ho creduto e sono tornato a dormire", ricorda divertito ma con un velo di rimpianto Sabatini. "Aveva un cappello in testa ed inizialmente mio padre gli chiese se era un giocatore di Pistoia, ma lui gli rispose sorridendo: 'No, io gioco negli Stati Uniti'. Allora lo guardò meglio, lo riconobbe immediatamente e scattò un lungo abbraccio". Quella volta Kobe si fece accompagnare dagli amici di infanzia alla sua vecchia casa, alla chiesa dove fece la prima comunione ed anche al campetto dove giocava, trovandolo con grande delusione in pessime condizioni. "Io con lui ci ho giocato qualche volta a pallone, non a basket perché era troppo forte", dice ancora Sabatini. Il suo Bryant è un quasi coetaneo sempre con il sorriso stampato sul volto che salutava tutti e soprattutto aveva una passione viscerale per la palla a spicchi.

Più maturo e, se possibile, ancora più determinato, è invece il Bryant trasferitosi a Reggio Emilia dove, con il suo marcato accento toscano, entrò a far parte delle giovanili della Pallacanestro Reggiana che aveva ingaggiato il padre. Uno dei suoi compagni di allora era Davide Giudici, buon giocatore a livello nazionale dove si è arrampicato fino alla serie B per una stagione. "Avevamo 11-12 anni – ricorda – eravamo una squadra molto forte, capace di vincere anche tornei internazionali ma lui era sicuramente meglio di noi". "Se pensavo che potesse diventare una stella della Nba? Ai tempi era una cosa lontanissima ed inimmaginabile – dice ancora – sicuramente credevo che potesse giocare in Serie A e per me era già una cosa pazzesca". Giudici parla del giovane Bryant come di un ragazzo "totalmente concentrato sul basket. Aveva già la testa da professionista".

Curioso l'episodio raccontato per il suo ritorno a Reggio Emilia nel 1997. "Uscimmo tutti insieme – spiega – lui si allenò anche con la Reggiana dove ai tempi militava il veterano Piero Montecchi (reggiano doc, ndr) che quando  eravamo piccoli giocava con le mitiche 'scarpette rosse' di Milano. Alla fine dell'allenamento Kobe, in segno di stima, gli chiese la maglia". Umile, determinato e fortemente legato ai valori imparati in Italia nella sua infanzia. Caratteristiche che gli sono state utili anche nel corso della sua leggendaria carriera che si avvia alla conclusione, con la consapevolezza che almeno in uno spicchio di quel pallone mandato a canestro milioni di volte nella sua vita c'era sempre un pezzetto di Italia.
 

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