Intervista al filmmaker egiziano che presenta 'We've never been kids' al 'festival' di Milano

La vicenda di Giulio Regeni "potrà contribuire a portare alle luce altre storie simili" in Egitto, "soprattutto se le autorità egiziane nei prossimi giorni diranno che è stato ucciso da uomini della sicurezza. Questo spingerà la gente a chiedere la riapertura di altri casi". Ad affermarlo è il regista egiziano Mahmood Soliman, che in questi giorni presenta in concorso al 'Festival del cinema africano, d'Asia e America Latina' di Milano il suo documentario 'We've never been kids' (2016). Proprio mentre delegati del Cairo sono a Roma per incontrare gli investigatori italiani che si occupano dell'omicidio del 28enne, trovato morto con segni di tortura al Cairo. Il suo film, premiato nei festival di Dubai, Luxor e Tetouan, racconta che cosa significa vivere in Egitto oggi, che cosa è cambiato e che cosa è rimasto immutato dopo la rivoluzione che nel 2011 ha destituito il regime di Hosni Mubarak.

La protagonista del suo film è una famiglia del Cairo, di cui documenta la vita: perché questa scelta?
"È la stessa famiglia del mio 'Living among Us' del 2003, la nostra relazione si è rafforzata negli anni permettendomi di documentare attraverso due generazioni il declino della situazione sociale, politica ed economica nei 13 anni più caldi della storia moderna egiziana, specialmente durante gli ultimi anni del regime di Mubarak, l'incerta speranza della rivoluzione del 25 gennaio, seguita dall'assassinio di quel sogno e della confusione prevalsa sino ad oggi". 

Il film descrive le condizioni di vita in Egitto. Le cose sono cambiate dall'era Mubarak?
"La situazione è difficile, soprattutto in relazione ai diritti umani. E' tutto molto diverso da ciò che sognavamo durante quella grande rivoluzione, molti egiziani pensano che non ci sia stato alcun vero cambiamento e che non ci siano differenze tra Mubarak, i Fratelli musulmani e il regime attuale".

In Italia è stata raccontata la storia di decine di persone scomparse in Egitto, casi di cui si attribuisce la responsabilità alle forze di sicurezza. Gli egiziani sono consapevoli?
"L'Egitto ha tanti casi come questo. I media del Paese raccontano le loro storie solo se sono costretti da prove diffuse dai cittadini, come i video girati con i telefonini e diffusi online. Altre volte le prove mancano e i casi restano motivo di disputa. I social media sono utili perché permettono di rendere i fatti pubblici, senza la tecnologia il governo sarebbe l'unica fonte di informazione".

Pensa che il governo del Cairo dirà la verità su Regeni?
"Il governo del Cairo ci ha raccontato molte storie, tutte illogiche. Ogni volta le ha rettificate o sostituite con altre. Questo crea una certa sfiducia e fa pensare che il caso sia gestito male. Penso che la sicurezza egiziana sia competente e sia in grado di prendere il responsabile e darne notizia velocemente, questo aumenta la confusione sul fatto che sinora non ci abbiano detto chi è stato…".

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