Il nuovo governo dovrà essere diverso da quello precedente anche se i due azionisti di maggioranza si guardano con diffidenza

E' nato, e va bene, con l'obiettivo di essere un governo di legislatura. Ma sarebbe superficiale ignorare il presupposto fondamentale di questo travagliatissimo parto plurigemellare: l'esecutivo giallorosso dovrà essere molto diverso – discontinuo, nel lessico del Nazareno – da quello gialloverde 'assassinato' su una spiaggia delle riviera romagnola da Matteo Salvini. Dovrà essere diverso nonostante quasi la metà dei ministri (10 su 21, più il sottosegretario Riccardo Fraccaro) appartenga allo stesso partito che ha dato vita al governo precedente. Dovrà essere diverso malgrado non tutti tra i maggiorenti di M5S e Pd fossero d'accordo a celebrare questo matrimonio. Dovrà essere diverso perché, in caso contrario, tra qualche mese si andrà naturalmente, fisiologicamente alle urne. Aperta parentesi: Matteo Salvini non starà a guardare e comincerà fin da domani – anzi, ha già cominciato – la sua opera di cannoneggiamento per rimediare al grave errore strategico compiuto a inizio agosto e per andare alle urne.

Dopo le baruffe sulle poltrone e sul ruolo dei vicepremier (da due a uno a nessuno), per adesso la discontinuità sta nella lista dei ministri. Molti dei quali sono al debutto o quasi: i riconfermati sono tre (Di Maio che però cambia alloggio, dal Mise agli Esteri, Bonafede ancora Guardasigilli e Costa che rimane all'Ambiente), più Fraccaro che diventa sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Spadafora che si trasferisce al ministero dei Giovani e dello Sport e Fioramonti che si occuperà di Istruzione. Su 21 ministri 7 sono donne, che è un discreto segnale per l'Europa di Ursula von der Leyen ma forse era lecito aspettarsi qualcosa di più.

Il Conte bis ha l'obiettivo e la presunzione di durare, anche se M5S e Pd non si amano nemmeno ora che sono soci in affari. Sono abbastanza distanti ideologicamente e sono ancora ammaccati da anni di cazzotti in faccia. Però sono stati costretti a trovare punti di convergenza per evitare che la deriva sovranista potesse prendere il sopravvento e per 'blindare' l'elezione del nuovo Capo dello Stato. A naso, ne esce malissimo Di Maio, abbastanza male Casaleggio, pesto Di Battista. E' il premier Conte, adesso, il frontman del Movimento, appoggiato da Beppe Grillo e con l'endorsement di Matteo Renzi. Uno di quelli che, turandosi il naso, ha vinto. Conte in queste settimane si è cucito addosso l'abito dello statista, ha scaricato brutalmente Salvini, ha dettato la linea sotto lo sguardo attento del Quirinale. Ha una enorme responsabilità sulle spalle, dovrà fare il premier e non più il paciere tra litiganti, dovrà smettere di essere l'avvocato del popolo. Semplicemente, dovrà.

La vera discontinuità, in teoria, sta nel programma più che nei nomi della squadra governativa. I punti sono lievitati di giorno in giorno fino a toccare quota 29, mica peanuts, e proprio il numero degli obiettivi da realizzare aiuta a capire che – in teoria – la vita dell'esecutivo non dovrebbe essere breve. Alla sterilizzazione dell'Iva bisogna provvedere a stretto giro di posta, la riduzione del numero dei parlamentari sarà il primo tema al vaglio della Camera, il dl sicurezza verrà rivisitato e 'umanizzato', poi ci si butterà sulla riforma fiscale e sulle autonomie, sul conflitto di interessi e sul lavoro. Poi, però. Prima bisogna dare tempo a grillini e dem di annusarsi e di imparare a fidarsi gli uni degli altri.
 

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