di Salvo Cataldo
Palermo, 28 ott. (LaPresse) – I protagonisti varcheranno la soglia del Quirinale poco dopo le nove del mattino: ci saranno i giudici della Corte d’assise di Palermo, i pm, gli avvocati degli imputati e delle parti civili. Il processo sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia negli anni bui delle stragi si appresta a entrare nelle stanze damascate del Quirinale. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, qualora dovesse essere confermata la sua disponibilità, così come evidenziato dalla Corte, in qualità di testimone risponderà alle domande del presidente Alfredo Montalto, ma soprattutto dei magistrati palermitani che hanno istruito uno dei processi più discussi della storia giudiziaria italiana.
Al Quirinale, oltre al procuratore reggente Leonardo Agueci, che però non avrà facoltà di formulare quesiti, saliranno anche gli avvocati degli imputati nel processo: tra questi i legali dei boss Totò Riina e Leoluca Bagarella, dell’ex ministro Nicola Mancino, dell’ex senatore Marcello dell’Utri e dell’ex direttore del Sisde Mario Mori. La necessità della deposizione di Napolitano era stata ribadita dalla Corte nel corso dell’udienza del 25 settembre: i giudici si erano pronunciati sulla richiesta da parte di alcuni avvocati di revocare la deposizione del capo dello Stato in virtù della lettera inviata dal Colle al collegio giudicante in cui il presidente della Repubblica spiegava di non avere nulla da aggiungere in merito all’oggetto del processo.
Negli uffici della procura di Palermo le ultime ore prima dell’appuntamento romano sono state febbrili, trascorse a limare nei minimi dettagli le domande che Vittorio Teresi, Antonino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene porranno a Napolitano. Molti punti interrogativi verteranno sulla famosa lettera inviata nell’estate del 2012 dall’allora consigliere giuridico del Colle, Loris D’Ambrosio, a Napolitano. In quella missiva D’Ambrosio, morto nel luglio dello stesso anno a causa di un infarto, manifestava il timore di essere stato considerato “solo un ingenuo e utile scriba”, strumento per “indicibili accordi”. Paure riferite a “episodi” che andavano dal 1989 al 1993.
In lista anche le domande sul documento, datato 20 luglio 1993, in cui i servizi segreti mettevano in guardia sull’intenzione della mafia di “ricavare nuove forme di trattativa” con lo Stato attraverso il “caos istituzionale” che sarebbe derivato da una ribellione della società civile “esasperata dal terrore degli attentati”. Si tratta del primo atto ufficiale dello Stato in cui compare la parola “trattativa”. L’intenzione di Cosa nostra, secondo il documento dei servizi segreti di allora, sarebbe stata quella di “ottenere forti sconti di pena nell’ambito di una più vasta e generale pacificazione sociale necessaria all’instaurazione del nuovo ordine costituzionale”. I servizi misero in guardia anche sul rischio attentati nei confronti dei presidenti di Camera e Senato di allora: Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini.
I magistrati, verosimilmente, chiederanno a Napolitano se fosse a conoscenza dei possibili progetti di attentato nei suoi confronti in corso in quei concitati mesi e cosa sappia, in generale, di quei ‘caldi’ giorni dell’estate ’93. Nella storia del processo non sono mancate le dure contrapposizioni tra la procura e il Quirinale: a partire dalle intercettazioni delle telefonate in cui Mancino si lamenta con D’Ambrosio delle indagini portate avanti dalla procura di Palermo e chiede un interessamento del Colle, fino alle chiamate tra l’ex ministro e lo stesso Napolitano. Il contenuto di quei colloqui, ritenuto penalmente irrilevante, è stato distrutto a seguito di una sentenza della Corte costituzionale messa in moto da un conflitto d’attribuzione sollevato da Napolitano nei confronti della procura di Palermo. Episodi risalenti ai mesi a cavallo tra il 2011 e il 2012, su cui il capo dello Stato ha già detto di non avere nulla da dire ma che domani risuoneranno nelle stanze del Quirinale.
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