Il 36esimo viaggio apostolico di Papa Francesco si chiude nel segno dell'amore per l'altro e del dolore per una guerra "selvaggia" e "sacrilega", com'è quella "della martoriata Ucraina"

Il 36esimo viaggio apostolico di Papa Francesco si chiude nel segno dell’amore per l’altro e del dolore per una guerra “selvaggia” e “sacrilega”, com’è quella “della martoriata Ucraina, ancora sotto i bombardamenti”. Il viaggio a Malta, luogo simbolo delle migrazioni, che si è aperto sabato con l’ipotesi, sul tavolo, di una prossima visita del pontefice a Kiev, si chiude con un riferimento che va ancora una volta alle vittime della guerra, a chi muore e a quanti sono costretti a fuggire.

La Chiesa, “testimone di riconciliazione”, deve saper perdonare, ricominciare, ma soprattutto accogliere, così come i Paesi dove arriva chi fugge da fame e guerra.

La due giorni a Malta si chiude nel centro migranti ‘Giovanni XXIII Peace Lab’, dove il Papa parla dopo aver ascoltato le testimonianze drammatiche di due giovani, Daniel e Siriman.

“Quella del naufragio è un’esperienza che migliaia di uomini, donne e bambini hanno fatto in questi anni nel Mediterraneo – dice il pontefice – E purtroppo per molti di loro è stata tragica. Ma c’è un altro naufragio che si consuma mentre succedono questi fatti: è il naufragio della civiltà, che minaccia non solo i profughi, ma tutti noi”.
Una sola è la strada per la salvezza: “Comportarci con umanità – spiega il pontefice – Guardando le persone non come dei numeri, ma per quello che sono, cioè dei volti, delle storie, semplicemente uomini e donne, fratelli e sorelle”. “E pensando – continua – che al posto di quella persona che vedo su un barcone o in mare alla televisione, o in una foto, al posto suo potrei esserci io, o mio figlio, o mia figlia…”.

“Le vostre storie – dice il Papa ai circa 200 migranti che lo ascoltano – fanno pensare a quelle di migliaia e migliaia di persone che nei giorni scorsi sono state costrette a fuggire dall’Ucraina a causa della guerra, ingiusta e selvaggia. Ma anche a quelle di tanti altri uomini e donne che, alla ricerca di un luogo sicuro, si sono visti obbligati a lasciare la propria casa e la propria terra in Asia, in Africa e nelle Americhe”.

La chiave è cambiare, non solo il punto di vista, ma l’approccio stesso dell’accoglienza, perché “purtroppo a volte i diritti sono violati, con la complicità delle autorità competenti”. Puntare a un mondo migliore, nel quale i centri siano innanzitutto “luoghi di umanità” e i migranti non siano visti, vissuti, come numeri “ma persone in carne e ossa, volti, sogni a volte infranti” e “testimoni dei valori umani essenziali per una vita dignitosa e fraterna”.

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