Pechino (Cina), 11 ott. (LaPresse/AP) – Aumentano gli sgomberi forzati in Cina. Questo l’allarme lanciato da Amnesty International, secondo cui le autorità locali “indebitatesi con le banche statali per finanziare progetti di sviluppo, cercano di recuperare denaro sequestrando e rivendendo terreni”. In un rapporto diffuso oggi, il gruppo per i diritti umani denuncia che “in tutto il Paese, tanto nelle campagne quanto nelle città, gli sgomberi forzati sono accompagnati da uccisioni, pestaggi, intimidazioni e arresti delle persone sgomberate”. Secondo l’organizzazione, “alcune persone, per la disperazione, hanno fatto ricorso all’estrema forma di protesta dell’immolazione col fuoco”. Il partito comunista cinese, nota Amnesty, “continua a promuovere i funzionari locali impegnati nella crescita economica, senza curarsi del modo in cui viene raggiunta”. Nove dei 40 sgomberi forzati esaminati dal gruppo in dettaglio “sono terminati con la morte di persone che protestavano o avevano opposto resistenza”.
In particolare, si legge nel rapporto, “il 3 marzo 2010 una donna di 70 anni, Wang Cuiyan, è stata sepolta viva da una scavatrice quando un gruppo di 30-40 operai ha iniziato a demolire la sua abitazione a Wuhan, nella provincia dello Hubei”. Non mancano inoltre i casi in cui “le proteste contro gli sgomberi forzati si sono fatte violente e, in 41 casi documentati da Amnesty International tra il 2009 e il 2011, le persone si sono date fuoco”, mentre “nel decennio precedente le immolazioni erano state meno di 10”. Le autorità locali, spiega il gruppo, “continuano ad approvare, o quanto meno a chiudere un occhio, sulle tattiche senza scrupoli di chi sgombera le persone dalle loro abitazioni e si appropria, rimettendolo in vendita, del loro diritto d’uso delle terre”.
Al tempo stesso “le garanzie previste dal diritto internazionale in merito alla necessità di notifiche e consultazioni preventive e all’obbligo di fornire un alloggio alternativo vengono raramente rispettate e gli indennizzi sono ben al di sotto del valore di mercato dei beni espropriati”. Succede spesso, denuncia Amnesty, che “i funzionari locali e i titolari dei progetti di sviluppo assoldano con frequenza criminali armati di bastoni e coltelli per terrorizzare i residenti”. Il gruppo cita alcuni episodi di violenze, tra cui uno avvenuto il 18 aprile 2011, quando alcune centinaia di uomini hanno fatto irruzione nel villaggio di Lichang, nella provincia dello Jiangsu, attaccando i contadini e picchiando una ventina di donne. “Il 15 giugno 2011 la polizia di Wengchang, nella provincia del Sichuan – riferisce ancora l’organizzazione con sede a Londra – ha preso in ostaggio un neonato di 20 mesi e non lo ha rilasciato fino a quando la madre non ha messo la firma su un ordine di sgombero”.
Amnesty sottolinea inoltre che “le persone che organizzano forme di resistenza contro gli sgomberi finiscono spesso in carcere o nei centri di rieducazione attraverso il lavoro”. Chi presenta un reclamo contro uno sgombero, nota il gruppo, ha “poche speranze di ottenere giustizia” a causa della “mancanza d’indipendenza dei tribunali cinesi”. L’organizzazione chiede di conseguenza “alle autorità cinesi di porre immediatamente fine a tutti gli sgomberi forzati e introdurre e attuare garanzie adeguate e in linea col diritto internazionale”.
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