New York (New York, Usa), 23 set. (LaPresse) – E’ stato un botta e risposta duro, ma addolcito da un filo di speranza, quello tra il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas e Banjamin Netanyahu, che si sono susseguiti a pochi minuti di distanza sullo stesso palco per rivolgersi all’Assemblea generale delle Nazioni unite. Abbas, accolto da un grande applauso e da una standing ovation della platea, pochi minuti prima di parlare, aveva consegnato nelle mani del segretario generale delle Nazioni unite Ban Ki-moon la richiesta scritta palestinese di ingresso nell’istituzione con lo status di Paese membro a tutti gli effetti, da votare tra i 15 membri del Consiglio di sicurezza, a cui in serata è stata trasmessa.
Parole dure, accuse reciproche, speranze di pace. Nei discorsi dei due leader si sono concentrate tutte le sofferenze e i dolori di due popoli che da decenni cercano, senza trovarla, una soluzione al conflitto. Uno, Israele, appoggiato comunque dai grandi del mondo, potrà godere del sostegno degli Stati Uniti che nel voto al Consiglio di sicurezza hanno già annunciato il proprio veto. L’altro, la Palestina, ancora non riconosciuta del tutto a livello internazionale, ha riscosso oggi, grazie alle parole del suo leader, il sostegno di gran parte dei Paesi presenti in Assemblea. Prova ne sono gli applausi, le interruzioni, le ovazioni al solo nominare l’indimenticato leader Yasser Arafat.
“Tendiamo la mano al governo e popolo israeliano per la pace”, ha dichiarato Mahmoud Abbas, davanti all’Assemblea, verso la fine del suo discorso. “Dico a loro: cerchiamo di costruire un futuro per i nostri figli in cui possano avere libertà, sicurezza e prosperità. Costruiamo punti del dialogo e non barriere. Costruiamo relazione cooperativa basata su equità e giustizia e non su politiche di occupazione e insediamenti”. Parole a cui a circa un’ora di distanza così ha risposto Netanyahu: “Signor Abbas lei ha dedicato la vita alla causa palestinese. Questo conflitto deve ancora continuare? In due anni ci siamo incontrati a Gerusalemme solo una volta. La mia porta è sempre aperta, o posso venire a Ramallah. Però ho una soluzione migliore. Abbiamo preso un aereo e abbiamo viaggiato per migliaia di chilometri. Siamo nella stessa città e nello stesso edificio. Incontriamoci qua oggi alle Nazioni unite. Se veramente vogliamo la fine del conflitto perché non possiamo incontrarci oggi e negoziare la pace?”.
L’incontro rimane però solo una speranza, anche perché prima di queste reciproche aperture le parole erano state di fuoco. “Israele – ha detto Abbas – continua a costruire migliaia di insediamenti in aree della Cisgiordania e nella parte araba di Gerusalemme. Costruisce in maniera sempre più veloce e sta innalzando una barriera che divide sempre più il nostro Paese e distrugge la vita della nostra comunità. Israele porta avanti una campagna di demolizione e confisca delle case dei palestinesi e una politica di pulizia etnica per mandare via i palestinesi dalla loro terra”. La prima necessità per il leader palestinese è il ritorno ai confini del 1967, precedenti alla Guerra dei Sei giorni, con lo smantellamento delle colonie. “Questa politica – ha continuato – distruggerà l’opportunità di raggiungere l’opzione a due Stati basata sul consenso internazionale. La politica di insediamenti minaccia anche la struttura dell’Anp e la sua stessa esistenza”.
Nel discorso di Abbas, interrotto più volte da lunghi applausi e ovazioni, è emerso però soprattutto il dolore del popolo palestinese, “persone indifese che hanno solo sogni di fronte a proiettili, carri armati, gas tossici e bulldozer”. Un popolo che chiede di essere riconosciuto dalla comunità internazionale. “Portiamo qui le nostre tragedie e abbiamo fiducia in accordi diplomatici, non vogliamo isolare Israele o deligittimarlo, al contrario – ha proseguito – vogliamo legittimazione per la causa del popolo palestinense. Il nostro scopo è solo quello di delegittimare gli insediamenti, così come l’occupazione e la logica dello sradicamento del popolo. Tutti i Paesi del mondo sono dalla nostra parte in questo. Continuerà la resistenza pacifica contro gli insediamenti israeliani e la costruzione di una barriera discriminante”.
Decise e aggressive sono state le parole del premier Netanyahu che, oltre ad attaccare la frange più estreme palestinesi, si è scagliato contro il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, intervenuto ieri, e il cosiddetto “Islam militante”, che “ha preso potere a Gaza e non si oppone solo alle politiche israeliane, ma alla sua esistenza”. “Alcuni – ha proseguito il primo ministro – pensano che l’avanzata dell’Islam armato possa essere fermata se Israele farà delle concessioni. Noi abbiamo tentato, ma non ha funzionato. Nel 2000 Israele ha fatto un’offerta che soddisfava tutte le richieste dei palestinesi, ma loro hanno risposto lanciando attacchi”. E poi dure parole anche contro l’Onu, definito “corridoio buio per Israele”, e “teatro dell’assurdo” che in passato ha dato spazio a personaggi che hanno violato i diritti umani “come Muammar Gheddafi o Saddam Hussein”.
Il discorso si è poi concentrato sui passi fatti da Tel Aviv verso la pace e dagli ostacoli posti dai palestinesi, oltre che la sicurezza minacciata da Israele. “Le piccole dimensioni del nostro Paese – ha detto – creano enormi preoccupazioni per la sicurezza. Ci vogliono appena 3 minuti per volare sopra Israele. Come potremmo evitare il contrabbando di armi in Cisgiordania? Come si può impedire che da queste montagne passino armi che vengono poi usate contro nostri cittadini? Sono problemi reali che devono essere affrontati ora, non dopo” il riconoscimento dello Stato palestinese, “perché altrimenti ci esploderanno in faccia”.
L’apertura reciproca rimane per ora dunque solo nell’aria. Il Consiglio di sicurezza ne discuterà lunedì. Intanto, il quartetto per il Medioriente, ultimo mediatore che ha cercato di trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese, ha chiesto alle due parti di riaprire i colloqui, per raggiungere un accordo entro il 2012.
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