Per i sindacati priorità assoluta è "garantire la continuità aziendale e salvaguardare i lavoratori"

Le condizioni poste da Arcelor Mittal per rimanere in Acciaierie d’Italia sono “inaccettabili e impercorribili”, per traghettare Taranto fuori dalla drammatica crisi produttiva in cui versa e garantire l’occupazione di un bacino che conta 20mila lavoratori tra diretti e indiretti, serve un intervento drastico. Dopo mesi di trattative andate a vuoto tra il governo e il colosso franco-indiano, il ministro delle Imprese e Made in Italy, Adolfo Urso, nell’informativa in Senato sull’ex Ilva, annuncia un cambio di rotta, che potrebbe concretizzarsi in un “divorzio consensuale“. Sarebbe questa l’ipotesi che l’esecutivo avrebbe prospettato – secondo quanto riferito da fonti presenti al tavolo – ai leader di Fiom, Fim, Uilm, Uglm nel corso dell’incontro che si è tenuto in serata a Palazzo Chigi, prendendo tempo almeno fino a mercoledì prossimo. In ogni caso, ha sottolineato il governo ai sindacati “Mittal è fuori“.

Tramonta, dunque, la possibilità di rimanere in partnership con Mittal: “Noi intendiamo invertire la rotta cambiando equipaggio”, aveva chiarito senza mezzi termini in mattinata il ministro Urso, evidenziando che alla richiesta di un impegno finanziario pro quota il socio privato si è tirato indietro, anche nel caso in cui lo Stato dovesse salire al 66%, portando così gli indiani al 34% del capitale. Di fatto, Mittal si è detta “disponibile ad accettare di scendere in minoranza ma non a contribuire finanziariamente in ragione della propria quota, scaricando l’intero onere finanziario sullo Stato ma nel contempo reclamando il privilegio concesso negli originali patti tra gli azionisti”, che prevedono una gestione condivisa tra soci al 50%. Patti a dir poco “leonini” che, ha accusato il titolare di via Veneto chiamando in causa il governo Conte II, “nessuno che abbia cura dell’interesse nazionale o che abbia conoscenze delle dinamiche industriali avrebbe mai sottoscritto”.

Ma l’inaffidabilità di Mittal era fatto noto, ribadiscono i sindacati entrando a Palazzo Chigi. Non servono rimpalli né scaricabarile, la priorità assoluta è garantire la continuità aziendale e salvaguardare i lavoratori, dicono in coro i leader delle tute blu. Taranto – ricordano – ancora non è ferma. Dal canto loro, anche gli industriali bacchettano il governo, parlando di intervento tardivo. “Dispiace vedere che sul’ex Ilva si stia prendendo consapevolezza solo oggi”, ha chiosato il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. La colpa non è dell’esecutivo Meloni, però “sono 4 anni che sto battendo su Ilva, tutti hanno rimandato in là la palla ma oggi i nodi vengono al pettine”. E sull’ipotesi della nazionalizzazione, ha aggiunto: “Non credo sia una soluzione: se è un ponte ha un senso, se è solo per risolvere il problema elettorale non va bene”.

La crisi dell’Ilva sta attraversando la sua fase più acuta: nel 2023 la produzione si attesterà a meno di 3 milioni di tonnellate, come nel 2022, ben al di sotto di quei 4 milioni auspicati, come della risalita a 5 milioni promessa da AdI. “Nessuno degli impegni presi – da Mittal ndr – è stato mantenuto. Il momento è decisivo e richiama tutti alla massima responsabilità”, ha chiosato Urso, a cui ha fatto eco la collega del Lavoro, Marina Calderone, assicurando che l’esecutivo “metterà in campo misure e azioni che abbiano al centro la tutela del bacino d’occupazione. La nostra massima attenzione è al non disperdere le competenze dei lavoratori e tutelare tutti i lavoratori di Ilva”.

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