Di Fabio De Ponte

Roma, 21 dic. (LaPresse) – Girare filmati dentro i Centri di identificazione ed espulsione (Cie) è vietato. I migranti che, al momento dell’ingresso, hanno un telefonino con la telecamera, devono consegnarlo oppure lasciarlo manomettere in modo che non sia più in grado di riprendere. La prassi, che è diffusa in tutti i centri, secondo l’avvocato Gianfranco Schiavone, che di Cie si è occupato a lungo, ha una spiegazione chiara: “Se non vietassero le telecamere dentro i Cie – dice – chissà quante immagini come quelle del Tg2 ci sarebbero”. Dal Viminale però danno versione diversa: a volte ci sono soggetti che sono scappati dal proprio Paese d’origine, hanno fatto richiesta d’asilo e sono in attesa di passare nei Cara. Sarebbe pericoloso per loro essere ripresi. Non c’è alcuna preclusione alle telecamere in quanto tali, sottolineano, tanto che i giornalisti possono far richiesta alle prefetture e ottenere il permesso di entrare (l’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni nel 2011 lo aveva vietato ma poi Annamaria Cancellieri, che ne prese il posto nell’esecutivo successivo, li riaprì).

“ATTENZIONE OSSESSIVA A EVITARE CHE USCISSERO IMMAGINI”. Schiavone è un esperto della materia: già nel 2007 fece parte della Commissione per le verifiche e le strategie dei centri guidata dall’ambasciatore Staffan De Mistura, oggi sottosegretario agli Esteri, che produsse una dettagliata relazione su quelli che allora si chiamavano Centri di permanenza temporanea (Cpt). “A Gradisca – spiega riferendosi al Cie di Gradisca di Isonzo, chiuso a metà novembre 2013 in seguito all’ennesima rivolta – ci fu un tentativo di incendio circa un anno fa. La risposta della prefettura fu in un primo tempo quella di rimuovere i materassi, così la gente doveva dormire per terra. L’assenza di foto aiutava l’invisibilità della situazione. C’è sempre stata una attenzione ossessiva a evitare che uscissero immagini di ogni tipo. Loro la giustificano con il rispetto della privacy ma è ridicolo: se fosse un problema di privacy dovrebbero essere le persone a decidere se essere riprese o meno”. Quella di Gradisca, racconta, era una situazione limite, tanto che la struttura è stata chiusa: “Era in un degrado eccezionale. Le persone vivevano nelle gabbie, che si aprivano su un piccolo spazio di cemento dal quale non si poteva uscire. C’erano limitazioni permanenti alla possibilità di muoversi, la mensa era chiusa da due anni per impedire assembramenti e i pasti erano serviti nelle gabbie. Anche il campo da basket era chiuso per lo stesso motivo”.

“PSICOFARMACI A TUTTI I MIEI ASSISTITI”. Ma anche dove le condizioni non arrivano a questi limiti estremi, i problemi non mancano. Rivolte e atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno. Ed è largamente diffusa, denunciano in molti, la somministrazione di psicofarmaci per tenere calmi i migranti. “A tutti i miei assistiti sono stati somministrati psicofarmaci”, racconta Stefania Gatti, patrocinatrice di alcuni trattenuti nel Cie di Torino. Si tratta di farmaci come il Rivotril, un potente sedativo antiepilettico. “Ho sentito diverse testimonianze dirette. Non possiamo averne riscontri provati ma credo sia possibile che mettano psicofarmaci anche nel cibo”, dice l’avvocato Livio Neri, che difende alcuni migranti trattenuti al Cie di Milano. “Anche qui abbiamo sempre avuto il dubbio – conferma l’avvocato Daniele Papa, referente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) per la Sicilia -. Sono state numerose le denunce in questo senso da parte delle associazioni che lavorano in queste strutture”. A Torino c’è stata anche una morìa di piccioni. “Alcuni operatori della Croce rossa”, che è l’ente gestore del Cie del capoluogo piemontese, “mi dissero – racconta Gatti – di aver portato via sacchi interi di piccioni morti. ‘Gli diamo da mangiare quello che mangiamo noi e muoiono’, mi raccontò uno dei miei assistiti. Ovviamente io non posso sapere perché morissero e se ci sia un collegamento, ma il fatto certamente non è tranquillizzante”.

CROCE ROSSA: “PSICOFARMACI DI NASCOSTO? FOLLIA”. “Siamo alla follia più totale, non capisco come si possa immaginare una cosa di questo genere”, ribatte Antonino Calvano, presidente regionale piemontese della Croce Rossa, che è l’ente gestore del Cie di Torino. “A Torino c’è uno staff medico che turna sulle 24 ore e che prescrive i farmaci”, spiega il presidente provinciale di Torino della Croce Rossa, Graziano Giardino. “Noi prepariamo tutto – aggiunge – nella cucina della Protezione civile di Settimo, dalla quale riforniamo anche i rifugiati dello Sprar” (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). “In ogni caso l’ordine pubblico non è compito nostro – conclude – quindi che interesse avremmo a esporci con una cosa tanto grave?”. Una cosa del genere sarebbe una cosa di una gravità tale, sottolineano dal Viminale, che non è neanche immaginabile possa accadere. “Basterebbe un controllo dei Nas”, taglia corto un altro legale, Guido Savio, referente per l’Associazione studi giurici sull’immigrazione (Asgi) della campagna ‘Lasciateci entrare’. “A Bologna – spiega – hanno chiuso il centro dopo la visita dei Nas”. In effetti a marzo scorso la struttura del capoluogo emiliano ha chiuso i battenti per permettere una ristrutturazione dopo che era emersa l’inadeguatezza delle condizioni igienico-sanitarie e della struttura, oltre a una serie di problemi economici dell’ente gestore, il consorzio Oasi.

FUORI DAL SSN. Un altro problema è quello dell’assistenza sanitaria: il servizio sanitario nazionale, spiega Silvia Canciani dell’Asgi, resta fuori dai Cie. E’ l’ente gestore che si fa carico delle esigenze di salute interne alla struttura. “E non c’è un protocollo unico”, sottolinea Savio. “E’ il medico interno a stabilire se hai bisogno o meno degli esami. Un anno fa ci fu un tunisino che aveva una protesi all’occhio. A Milano, nel Cie di via Corelli, dissero che la protesi si infettava e lo rilasciarono perché non erano in grado di garantire cure adeguate. Lo fermarono di nuovo e finì al Cie di Torino, dove dissero che poteva restare nonostante il suo problema all’occhio. Poi approdò al Cie di Trapani. Ma quelli mi chiesero: ‘Può stare dentro?’. Io gli mandai la documentazione di Milano e lo dimisero, circa un anno fa”.

IN 6 ANNI POCO E’ CAMBIATO. Dal rapporto della commissione De Mistura a oggi poco o nulla è cambiato. Nella relazione si indicava la necessità di una “maggiore trasparenza e coinvolgimento della società civile”. “L’accesso ai centri – si leggeva tra i punti finali del documento – dovrebbe essere consentito alla stampa, agli enti locali e alle associazioni”. Non solo, ma il testo si spingeva fino a invitare il ministero a un “progressivo svuotamento” dei centri, fino al definitivo superamento. I Cpt, istituiti da una legge del 1998 che porta anche il nome del presidente della Repubblica, la Turco-Napolitano, che ne fu estensore, negli ultimi anni hanno seguito una parabola: il ministro dell’Interno Roberto Maroni – mentre introduceva la prassi dei respingimenti e il reato di clandestinità – ne aveva cambiato il nome in Cie, esteso il limite di permanenza fino a 18 mesi e ne aveva promesso uno per Regione. Poi le cose sono andate diversamente e negli ultimi due anni sono stati sette i centri a chiudere i battenti.

IL GIUDICE ORDINARIO. Un altro punto di quel rapporto suggeriva che la “espulsione e trattenimento dell’immigrato dovrebbero passare attraverso il giudice ordinario”. Problema mai superato e oggi parte di un programma in dieci punti dell’Asgi per superare le criticità del sistema della gestione dell’immigrazione: Occorre “garantire – scrive l’associazione – che ogni forma di limitazione della libertà personale sia disposta da un giudice professionale (e non più dai giudici di pace) al pari di quanto previsto per tutti i cittadini italiani”.

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