Città del Vaticano, 13 ago. (LaPresse) – Paolo Gabriele, il maggiordomo del Papa accusato per la fuga di documenti riservati della Santa Sede, è stato rinviato a giudizio. Per lui l’accusa è di furto aggravato. Rinviato a giudizio anche Claudio Sciarpelletti, dipendente della Segreteria di Stato vaticana. Ha 48 anni ed è cittadino italiano. E’ stato arrestato lo scorso 25 maggio. Era accusato di concorso in furto aggravato, favoreggiamento e violazione di segreto, ma è stato rinviato a giudizio solo per favoreggiamento.
LA POSIZIONE DI SCIARPELLETTI – Sciarpelletti è un tecnico informatico della Segreteria di Stato vaticana e un conoscente di Paolo Gabriele. Il suo ufficio venne perquisito il 25 maggio, data dell’arresto. L’uomo ha passato in carcere solo una notte e il 26 è stato rimesso in libertà. Negli interrogatori ci sono state delle contraddizioni e in base a questo il promotore di giustizia vaticana lo ha rinviato in giudizio solo per favoreggiamento. È sospeso ‘ad cautelam’, essendoci un procedimento nei suoi confronti. Riceve lo stipendio. La sua posizione è ritenuta marginale e, come spiega padre Lombardi, “non è considerato un complice. Non è un corresponsabile della vicenda – dice ancora il direttore – la decisione del giudice è stata dettata dal fatto che la sua testimonianza non è stata coerente”.
PERIZIA PSICHIATRICA – Gabriele, si è appreso oggi, era stato sottoposto a perizia psichiatrica e dichiarato imputabile.
L’ASSEGNO – Durante le perquisizioni domiciliari, oltre i documenti sottratti dall’appartamento papale, sono stati trovati anche un assegno di 100mila euro intestato al Papa, una pepita d’oro e una edizione dell’Eneide del 1581. Gli oggetti erano regali fatti a Benedetto XVI. Inoltre, si evince dalla sentenza resa nota oggi, è stato rinvenuto anche un dossier di 37 altri documenti nell’abitazione estiva a Castel Gandolfo in uso a Gabriele.
“COLPA DEL DISORDINE” – Da parte sua, si legge nella requisitoria del promotore di giustizia Nicola Picardi, Paolo Gabriele ha giustificato questa circostanza con il caos nel quale erano le sue cose. “Nella degenerazione del mio disordine è potuto capitare anche questo”, ha detto. Il giudice istruttore gli ha, quindi, domandato se a lui venissero affidati anche i doni presentati al Santo Padre da portare poi in Ufficio. L’imputato ha risposto: “Sì. Ero l’incaricato di portare alcuni doni presso il magazzino e altri in Ufficio. Taluni di questi doni servivano per le pesche di beneficenza del Corpo della Gendarmeria, della Guardia Svizzera Pontificia e per altre beneficenze. Mi spiego ora perché una persona che si era fatta tramite di questo, mi chiese perché non era stato riscosso un assegno donato da alcune suore e ciò fu da me portato a conoscenza di monsignor Alfred Xuereb. Mons. Gaenswein talvolta mi faceva omaggio di taluni doni fatti al Santo Padre”.
“IL PAPA NON E’ INFORMATO” – Un documento fitto quello che spiega le motivazioni del rinvio a giudizio di Paolo Gabriele. “Ritenevo – si legge in un passaggio – che anche il Sommo Pontefice non fosse correttamente informato su alcuni fatti. In questo contesto (fui) spinto anche dalla mia fede profonda e dal desiderio che nella Chiesa si dovesse far luce su ogni fatto”.
“INFILTRATO DELLO SPIRITO SANTO” – “Preciso che vedendo male e corruzione dappertutto nella Chiesa, sono arrivato negli ultimi tempi, quelli… della degenerazione, ad un punto di non ritorno, essendomi venuti meno i freni inibitori”. Lo ha detto Paolo Gabriele, il maggiordomo del Papa rinviato a giudizio per furto aggravato delle carte riservate della Santa Sede, in un interrogatorio con i magistrati vaticani dello scorso cinque giugno. “Ero sicuro – prosegue Gabriele a quanto riferito nella sentenza di rinvio a giudizio di 35 pagine – che uno shock, anche mediatico, avrebbe potuto essere salutare per riportare la Chiesa nel suo giusto binario. Inoltre nei miei interessi c’è sempre stato quello per l’intelligence, in qualche modo pensavo che nella Chiesa questo ruolo fosse proprio dello Spirito Santo, di cui mi sentivo in certa maniera un infiltrato”.
LE CARTE INCENDIATE DAL PADRE SPIRITUALE – Nel dispositivo della sentenza, emessa oggi dal magistrato Piero Antonio Bonnet dal tribunale di Stato della Città del Vaticano, con la quale è stato rinviato a giudizio Paolo Gabriele per furto aggravato dei documenti del Vaticano, vengono menzionati alcuni testimoni che nel documenti compaiono però con i nomi sigliati. E’ il caso del padre spirituale del maggiordomo, tale B. che, alcuni giorni dopo l’inchiesta, è stato ascoltato e ha detto di aver bruciato i documenti di Gabriele. Gabriele, si legge nel dispositivo, dice di aver dato anche a B. “fotocopia dei documenti consegnati a Nuzzi”.
B. conferma di aver ricevuto tra il febbraio e il marzo del 2012 dall’imputato – senza che questi gli ponesse alcuna condizione – una raccolta di documenti – importanti in quanto attinenti alla Santa sede, contenuti in una scatola con lo stemma Pontificio larga come un foglio A4 e alta circa 6 o 7 centimetri”. B., si legge, ha poi detto: “Ho distrutto i documenti per una duplice ragione: in quanto ne conoscevo l’importanza e in quanto qualche mese prima avevamo subito un furto”. B. inoltre sottolinea che era a conoscenza del fatto “queste documentazioni in fotocopia erano frutto di un’attività non legittima e non onesta e temevo che se ne potesse fare un uso altrettanto non legittimo e non onesto”. B. comunque non risulta indagato. Lo conferma anche padre Lombardi, che dice: “Non risultano elementi che possano condurre a imputazioni verso il padre spirituale. Forse, padre Gabriele glieli aveva consegnati nel tentativo di alleggerirsi la coscienza, chi può saperlo? L’unico fatto oggettivo è che gli eventuali consigli del padre spirituale non sono andati a buon fine, questo ovviamente per responsabilità dello stesso Gabriele più che per mancata saggezza del suo padre spirituale”.
IL PROCESSO PENALE IN VATICANO – La procedura penale vaticana, tornata in auge da qualche mese per l’inchiesta su Paolo Gabriele, segue per grandi linee quella dello Stato italiano. Ma ha, rispetto all’Italia, due grandi differenze: la prima è che non esiste un carcere; la seconda è che, essendo una monarchia assoluta, in Vaticano non c’è la separazione dei poteri. Sia quello esecutivo che quello legislativo sono in capo al Pontefice. E un medesimo cardinale può essere presidente di un tribunale e ministro della Giustizia. Il promotore di giustizia Nicola Picardi svolge un ruolo analogo a quello del pubblico ministero: compete a lui svolgere l’istruttoria sulla vicenda, interrogare l’indagato e acquisire le prove. A conclusione dell’istruttoria, il promotore presenta le conclusioni (richiesta di giudizio o di archiviazione) a un giudice unico, Piero Antonio Bonnet.
Se viene disposto il processo, vi sono tre gradi di giudizio: il tribunale di prima istanza, presieduto da Giuseppe Dalla Torre del Tempio di Sanguinetto; la corte d’appello, presieduta da monsignor Josè Maria Serrano Ruiz; e il tribunale di ultima istanza, la corte di Cassazione il cui presidente è il cardinale Raymond Leo Burke. Più complessa è la questione della detenzione di una persona in stato d’arresto. Nello Stato della Città del Vaticano non essendovi un vero e proprio carcere, si può fare affidamento solo su alcune camere di sicurezza presso il comando della Gendarmeria.
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