Il nuovo di Tom Hooper sarà nelle sale italiane da giovedì 18 febbraio

Non è propriamente un arrivo, quello di The Danish Girl in Italia. Piuttosto, è un ritorno: il film di Tom Hooper (già regista di ‘Les Misérables’ e ‘Il discorso del re’) il suo debutto a queste latitudini lo ha fatto lo scorso settembre, alla Mostra del Cinema di Venezia, guadagnandosi l’approvazione di stampa e addetti ai lavori. Certo, non una garanzia quando si tratta di entrare nella programmazione delle sale – cosa che avverrà da giovedì 18 febbraio -, ma di sicuro un buon biglietto da visita. Tanto più che la pellicola, ispirata al romanzo ‘La danese’ di David Ebershoff, a sua volta liberamente ispirato alla biografia di Lili Elbe, la prima persona a sottoporsi a un intervento di riassegnazione sessuale e tra le prime a essere identificata come transessuale, dovrebbe trovare un pubblico italiano particolarmente ricettivo, visto il momento.

 

Da una parte, per ovvi motivi di attenzione “politica”: in una fase del dibattito in cui i diritti lgbt hanno preso il centro della scena, non può passare inosservata una storia di ricerca della propria identità di genere ambientata negli anni ‘20, quando dubbi di questo tipo conducevano – come mostrato in una delle sequenze più disturbanti – verso una camicia di forza. D’altra parte, siamo anche a una decina di di distanza giorni dagli Academy Awards, monopolizzati quest’anno dal tormentone DiCaprio. Considerato che la giuria degli Oscar, quando si tratta di premiare il miglior attore, ha sempre un occhio di riguardo per le trasformazioni,  Eddie Redmayne potrebbe essere un candidato eccellente per lo sgambetto – in fondo – più atteso dell’anno. Non fosse che quella statuetta, lui, l’ha portata a casa solo un anno fa (nei panni di Stephen Hawking in ‘La teoria del tutto’).

Detto questo, confinarsi dentro a una lettura in chiave prettamente sociale di ‘The Danish Girl’ o ridurre tutto alla grandissima prova di Redmayne sarebbe limitativo e non renderebbe giustizia a un film in cui ogni elemento funziona alla perfezione. A partire da una sceneggiatura che il politico va a cercarlo tutto nel privato, senza proclami e lasciando allo spettatore la responsabilità di dare una lettura a quello che vede, per arrivare a un cast dove anche la meno “evidente” performance di Alice Vikander – nei panni di Gerda, moglie di Einar/Lili – potrebbe valere un Oscar da non protagonista.  Passando, e qui si apre un capitolo a parte, per scelte estetiche che su una pagina scritta è difficile trasporre. Grande merito a Hooper, in questo senso, che ha scelto di raccontare una storia di pittori (lo sono sia Einar/ Lili che Gerda) trasformando ogni inquadratura in un dipinto, lavorando in modo brillante su costumi, colori e composizione. Ricordandoci, se vogliamo, quello che è uno specifico tutto umano: la capacità di accogliere la natura dentro di sé, per rielaborarla e quindi riportarla all’esterno, in forma d’arte.

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