Era in corso un provvedimento a Torino

Il tribunale di Torino ha assolto il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, finito sotto processo con l’accusa di finanziamento illecito, a conclusione dell’inchiesta sulla campagna elettorale per le primarie del Partito democratico nel 2017. Per la giudice Alessandra Salvadori Emiliano “non ha commesso il fatto”. Le motivazioni saranno depositate nel termine di 90 giorni.

Per Emiliano, il pm aveva chiesto la condanna a un anno di reclusione. Condannati, invece, Claudio Stefanazzi, parlamentare del Pd e all’epoca capo di Gabinetto di Emiliano, e Vito Ladisa a quattro mesi di reclusione e 20mila euro ciascuno, previo riconoscimento delle attenuanti generiche. Assolto anche Giacomo Mescia e lo stesso Stefanazzi da un altro capo d’imputazione. Disposta, infine, la “trasmissione della motivazione della sentenza al pm per le sue determinazioni in relazione ai profili di responsabilità penale emersi a carico di ulteriori concorrenti”.

Legali Emiliano: “Pietra tombale su fandonie”

La sentenza di oggi è la pietra tombale sulle fandonie a carico del Presidente Emiliano che finalmente stacca la corrente al circuito del fango nel ventilatore, così tanto utilizzato a suo danno in questi lunghi 5 anni”. Lo dichiara a LaPresse l’avvocato Gaetano Sassanelli, difensore del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, con riferimento alla sentenza con cui il tribunale di Torino ha assolto il governatore pugliese dall’accusa di finanziamento illecito al partito, in relazione alle primarie Pd del 2017.

“Ma, naturalmente, com’è d’obbligo in Italia, nessuno risponderà di questi anni di informazione avvelenata, nonostante si siano rivoltati come un calzino la vita, i rapporti, gli affetti e l’intera esistenza del presidente”, prosegue. “Sono stati utilizzati gli strumenti investigativi più invasivi a disposizione della pg, perché forse qualcuno con il suo esposto anonimo ha cercato di guidare dall’esterno l’indagine, pensando così di sferrare un attacco finale e definitivo. Ma non aveva fatto i conti con la verità che, con la sua tenacia, alla fine ha avuto la meglio, dimostrando che la realtà era ben diversa”, va avanti il penalista. “Qualcuno evidentemente pensava che lo squallido ed incostituzionale strumento dell’anonimo potesse essere uno strumento con cui scardinarne l’immagine. Non ci dimentichiamo infatti che questa indagine è partita da una ipotesi di corruzione, senza neanche l’individuazione dell’atto contrario ai doveri di ufficio che costituisce un elemento costitutivo di quel reato, lasciando il retrogusto di un utilizzo della giustizia penale come strumento per raggiungere un determinato risultato, con la conseguenza che nell’opinione pubblica si era radicata una convinzione di colpevolezza in totale rotta di collisione con la verità, dopo molti anni accertata anche processualmente”, sottolinea.

“Si spera che ora, finalmente, dando il giusto peso ai maleodoranti anonimi, si torni invece alla logica del processo come attività necessaria per accertare fatti esistenti ed almeno astrattamente riconducibili ad un precetto penale. Ma partendo sempre da un fatto e mai più da congetture prive di sostanza”, conclude l’avvocato.

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