di Donatella Di Nitto

Roma, 1 dic. (LaPresse) E’ lo spettro dei tempi troppo stretti a preoccupare il premier Matteo Renzi. Prima l’Italicum o l’elezione del presidente della Repubblica? A questa domanda il presidente del Consiglio potrà rispondere solo con un solido accordo – si ragiona nei palazzi della politica – non tanto su un nome condiviso da proporre per il Quirinale, ma su un calendario che concili la necessità del governo di portare a casa una parte della riforma elettorale con l’inizio delle votazioni per l’elezione del nuovo capo dello Stato.

Ufficialmente infatti l’Italicum è atteso in aula al Senato il 16 dicembre, ma molti dubitano che la commissione Affari costituzionali, guidata da Anna Finocchiaro (Pd), riesca a terminarne l’esame entro questa data. Allo stato attuale si sta ancora procedendo alla discussione generale, mentre è stato fissata per martedì 10 dicembre alle 20 la scadenza della presentazione degli emendamenti. Difficile, spiegano fonti parlamentari, che in soli sei giorni si esaminino e si votino le proposte di modifica, si approvi il testo e si dia mandato ai relatori per l’approdo in aula. Molto più probabile che l’Italicum scavalli a dopo la pausa natalizia, con i lavori in commissione terminati. E’ qui infatti che Renzi e Berlusconi giocheranno la propria partita, per portare a casa un risultato per parte che soddisfi aspettative e mantenga le promesse date.

Il presidente del Consiglio in questi giorni ha più volte ripetuto che a gennaio la riforma sarà approvata da entrambi i rami del Parlamento, ma a scombinare i piani ci sarebbero le dimissioni di Giorgio Napolitano, ormai irrevocabili, entro il 31 dicembre. Il capo dello Stato sembra non voler concedere, riferiscono fonti accreditate, neanche qualche giorno in più, ed entro Natale deciderà infatti dove, come e quando dare l’annuncio. Quello che si spera in ambienti dell’esecutivo è che il presidente annunci le dimissioni e ma ne fissi la data effettiva posticipandola almeno fino al 15 gennaio, prendendo ad esempio un precedente illustre come quello di Papa Ratzinger, che dopo l’addio definitivo all’abito papale stette in carica ancora qualche tempo, in attesa dell’habemus papam.

Se la scelta di Napolitano dovesse essere questa, da metà gennaio inizierebbero i 15 giorni per la convocazione del Parlamento in seduta comune e prima ancora per l’elezione dei delegati regionali, membri del plenum per l’elezione del capo dello Stato. Questo scenario, con questa tempistica, potrebbe favorire i piani del governo con l’Italicum approvato in Senato e in terza lettura anche alla Camera. Se così non fosse però, se Napolitano, come si dice accogliesse il consiglio che “le dimissioni si danno e non si annunciano”, quei 15 giorni che verrebbero a mancare costringerebbero davvero Renzi a scendere a patti con Forza Italia e con le altre forze politiche sul nome, e in cambio avere almeno dalle file azzurre meno ostruzionismo possibile in aula a palazzo Madama sulla riforma elettorale. In sostanza all’esecutivo basterebbe una parte del disegno di legge approvato prima che i grandi elettori blocchino il Parlamento per l’elezione del successore di Giorgio Napolitano. A Berlusconi, soprattutto, e alle altre forze politiche la possibilità di poter mettere ognuno un mattoncino in quella che già si preannuncia una elezione per il dopo Napolitano molto lunga.

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