La giudice Vanessa Baraitser ha bocciato la richiesta di Washington
Julian Assange non può essere estradato dal Regno Unito agli Stati Uniti, dove è accusato di spionaggio ai danni del governo e rischierebbe 175 anni di carcere. A stabilirlo è stato il tribunale Old Bailey di Londra, in una svolta nella saga giudiziaria, politica e umana iniziata nel 2010 con l’esplosiva fuga di documenti sottratti al governo di Washington e pubblicati sul sito WikiLeaks fondato dall’australiano. La giudice Vanessa Baraitser ha bocciato la richiesta di Washington, respingendo però anche la difesa del 49enne che prevede un processo per motivi politici negli Usa e rivendica la libertà di stampa. Il no è arrivato invece a causa della precaria salute mentale di Assange, che Baraitser ha previsto peggiorerebbe in condizioni di isolamento in un carcere Usa. È “un uomo depresso e spesso disperato”, ha scritto la giudice, ha “la capacità intellettuale e la determinazione” per aggirare qualsiasi misura anti suicidio. Al momento della sentenza, Assange si è toccato la fronte, mentre la compagna Stella Moris, con cui ha due figli, è scoppiata in lacrime.
Il governo statunitense ha annunciato che presenterà ricorso, e il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha annunciato che continuerà a cercare di ottenere l’estradizione. Aggiungendo: “Sebbene siamo estremamente delusi”, “siamo lieti che gli Usa abbiano prevalso su ogni punto di diritto sollevato”, perché “la Corte ha respinto tutte le argomentazioni di Assange su motivazione politica, reato politico, giusto processo e libertà di parola”. I legali di Assange mercoledì chiederanno la sua scarcerazione in un’udienza per la cauzione, mentre il Messico gli ha offerto asilo politico.
Il fondatore di WikiLeaks è rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh a Londra da oltre un anno e mezzo, dopo che nel 2019 fu arrestato all’ambasciata dell’Ecuador. All’origine fu il peggioramento dei rapporti con Quito, e formalmente un mandato di arresto per violazione della libertà sorvegliata. In quella sede diplomatica Assange viveva barricato dal 2012, quando vi si era rifugiato per sfuggire al rischio di estradizione in Svezia, dove era ricercato per stupro (indagine poi abbandonata).
Ma questo non sarà l’ultimo capitolo della saga. Negli Usa pendono 17 capi d’accusa per spionaggio e abuso informatico, per la pubblicazione dei cabli diplomatici e militari riservati che resero noti abusi in Iraq e Afghanistan. I legali affermano che Assange agì in qualità di giornalista ed è quindi protetto dal primo emendamento, ma la giudice britannica ha dissentito: se quelle accuse fossero provate, costituirebbero “reati in questa giurisdizione non protetti dal diritto alla libertà di stampa”. Ha invece accolto la diagnosi di depressione clinica e disordine dello spettro autistico di Assange, decisiva per il verdetto.
Giornalisti investigativi, intellettuali, politici, artisti e gruppi per i diritti umani di tutto il mondo hanno criticato il processo ad Assange, denunciandolo come un attacco alla libertà di stampa. La Freedom of the Press Foundation ha elogiato la sentenza, deplorando però che sia basata sul fatto che il “sistema carcerario degli Usa è troppo oppressivo”. Glenn Greenwald, il giornalista statunitense che fu al centro di inchieste basate su documenti sottratti al governo Usa dall’ex agente della Cia Edward Snowden, premiato con il premio Pulitzer, ha commentato: “Non è una vittoria della libertà di stampa”, ma “un atto d’accusa al sistema carcerario Usa, follemente oppressivo”. E facendo eco a molte critiche, il fondatore di The Intercept ha aggiunto, chiedendo la scarcerazione di Assange: “Al governo Usa non importa in quale carcere sia, o perché: vogliono solo zittirlo e tenerlo in cella”.
© Copyright LaPresse - Riproduzione Riservata