Obiettivo un governo di transizione che permetta di colmare il vuoto di potere e frenare il caos

Cinque anni dopo l'inizio delle rivolte che destituirono il regime dittatoriale di Muammar Gheddafi, la Libia tenta di dar vita a un governo di transizione che permetta di colmare il vuoto di potere e frenare la crescita dei gruppi jihadisti. L'ultimo tentativo è stato presentato a Sjirat, in Marocco, dal Consiglio presidenziale incaricato dalle Nazioni unite con l'obiettivo di appianare le difficoltà che a fine gennaio portarono alla bocciatura del primo governo di unità nazionale.

La nuova proposta, che deve essere approvata dal governo di Tobruk e ottenere poi l'approvazione di quello rivale di Tripoli, non è molto diversa dalla precedente. Riduce a metà il numero di ministeri (da 26 a 13) e rispetta la ripartizione proporzionale tra le regioni libiche (Tripolitania a ovest con cinque ministeri; Cirenaica a est con quattro; Sud con altri quattro).

IL GENERALE HAFTAR – Tuttavia, persiste il punto che ha generato conflitto e che a gennaio ha portato al 'no': la designazione del ministero della Difesa. Si acutizzano in questo contesto le divergenze tra il governo di Tobruk e coloro che sostengono il generale Khalifa Haftar, comandante dell'esercito fedele al Parlamento di Tobruk ed ex membro della cerchia di Gheddafi, ma ora principale ostacolo alla pace.

Haftar, che negli anni '80 si trasformò in oppositore in esilio, è tornato dagli Usa in Libia all'inizio delle rivolte e ha agito tra le forze ribelli sino ad essere designato l'anno scorso come capo dell'esercito regolare vicino a Tobruk. Nel maggio 2014 ha assediato la città di Bengasi, sotto controllo delle milizie vicine al governo di Tripoli, decisione che ha promosso il conflitto e causato centinaia di migliaia di sfollati interni, aprendo la città alle forze jihadiste. Una parte del Parlamento della regione orientale insiste sul fatto che Haftar debba guidare il futuro esercito nazionale, mentre Tripoli e altre milizie indipendenti si oppongono con forza.

"Nella designazione si è tenuto conto dell'esperienza, competenza, distribuzione geografica, congiuntura politica e situazione sociale del Paese", ha detto il presidente del Consiglio presidenziale designato dall'Onu, Mohamad Fayez al Serraj, nel presentare la proposta di esecutivo.

I responsabili a Tobruk si mostrano cauti sulla possibilità che questo gabinetto ottenga l'appoggio del Parlamento, visto che ostacoli già riscontrati in precedenza non sono stati rimossi. Fonti di Tripoli ricordano, dall'altra parte, che per funzionare il governo necessita di poter contare sul sostegno del governo della capitale, visto che sarà lì che dovrà stabilirsi. "Tutto può succedere in Libia, ma è sicuro che l'ottimismo deve essere cauto. Ci sono poche possibilità che sia approvato e subito servirà maggior sforzo per che si possa trasferire nella capitale", ha detto a Efe un diplomatico arabo coinvolto nei negoziati.

IL GOVERNO DI UNITA' NAZIONALE – Tuttavia, il nuovo governo è stato accolto con entusiasmo dall'inviato speciale Onu per la Libia, Martin Kobler, che ha augurato "sia il vero inizio di un cammino di pace e unità per il popolo libico". Popolo su cui aleggia lo spettro di un nuovo intervento militare straniero, cinque anni dopo che il 15 febbraio 2011 la polizia disperse con la forza un sit-in antigovernativo a Bengasi, dando il via alle proteste che a ottobre portarono alla morte del colonnello Gheddafi.

Cinque anni di guerra e caos hanno lasciato il Paese diviso, trasformandolo in uno Stato fallito e facilitando l'ingresso di movimenti radicali vicini allo Stato islamico. Solo nell'ultimo anno, gli estremisti hanno consolidato la loro roccaforte nella città orientale di Derna, una delle prime a rivoltarsi contro il dittatore, e preso il controllo del porto di Sirte, dove Gheddafi nacque e fu ucciso. Sono anche entrati in vari quartieri di Bengasi e Sabratah, e hanno assediato i porti petroliferi di Ras Lanuf e Sidra. Un'avanzata che mette a rischio anche i Paesi vicini, soprattutto Tunisia e Algeria, che già si sono pronunciati contro un eventuale nuovo intervento militare straniero.

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