L'economista del rinomato Dartmouth College analizza con LaPresse le misure commerciali che il presidente Usa vuole adottare

di Stefano Fantino

Il presidente americano Donald Trump ha iniziato il suo mandato giurando che una politica economica "nazionalista", a favore del Paese, avrebbe caratterizzato la sua presidenza. Dalla decisione di ritirarsi dal trattato di Partenariato pacifico (il TTP) alla volontà di rinegoziare l'accordo Nordamericano per il libero scambio (Nafta), il repubblicano ha, di fatto, proposto misure di chiusura verso gli altri Paesi, per rimanere fedele allo slogan 'Make America Great Again'. LaPresse ha provato a capire se le misure economiche nel settore del commercio siano un esempio di vecchio 'protezionismo' e quanto queste stesse possano realmente essere utili al rilancio degli Usa. Ad aiutarci Douglas A. Irwin, economista del rinomato Dartmouth College (una delle prestigiose università della Ivy League, che conta tra le sue fila anche Yale e Princeton), autore di saggi per la celebre rivista Foreign Affairs e del libro, in uscita negli Usa, 'Clashing over Commerce: A History of U.S. Trade Policy'.

Il quadro che ne esce è quello di un protezionismo non particolarmente efficace nel tutelare le aziende americane ma che, anzi, potrebbe provocare ritorsioni e cambiare lo scenario commerciale globale.

 Il presidente Trump ha ritirato gli Stati Uniti dal TTP e ha annunciato di voler rinegoziare il NAFTA, spingendosi addirittura a imporre imposte speciali alle compagnie statunitensi che spostano le proprie fabbriche all'estero. Come vede queste decisioni? Ritiene siano utili?
 

Queste decisioni, prese dopo l'incarico, derivano dalla posizione sul commercio che aveva palesato chiaramente durante la campagna elettorale. Non sono utili per migliorare le prospettive economiche statunitensi, anzi rischiano di provocare un 'effetto boomerang' da parte di altri Paesi. Infatti questa misura può portare a risposte analoghe dall'estero: se gli Stati Uniti si allontanano dalle attuali norme commerciali, i Paesi che ne subiranno le conseguenze si sentiranno liberi di discriminare a loro volta gli Stati Uniti, il che significa un grave danno non solo per l'economia globale ma anche per quegli americani che Trump sostiene di rappresentare.

Quindi queste misure protezionistiche possono portare a simili azioni all'estero, quasi come una sorta di rappresaglia? C'è un precedente storico e cosa possiamo imparare da questo?C'è un ampio precedente storico per rappresaglie di questo tipo, ad esempio quanto è successo dopo che gli Stati Uniti hanno imposto la tariffa Smoot-Hawley (una tassazione che colpì, all'epoca, più 20mila prodotti) nel 1930. Così ora altri paesi, tra cui il Messico, si 'vendicherebbero' contro i beni americani, quelli agricoli in particolare, se gli Stati Uniti decidessero di influenzare negativamente i loro interessi di esportazione. Possiamo dire che il protezionismo non è un gioco a senso unico. In passato, ogni volta che gli Stati Uniti avevano imposto dazi sulle importazioni dalla Cina, le autorità di controllo di Pechino avevano improvvisamente trovato che il pollame o la carne di maiale americani erano contaminati e dovevano essere banditi, le sue compagnie aeree avevano iniziato ad acquistare Airbus invece di Boeing. Allo stesso modo aziende alimentari acquisterebbero soia argentina e frumento australiano piuttosto che gli equivalenti americani.

© Copyright LaPresse - Riproduzione Riservata

Tag: ,