Milano, 3 apr. (LaPresse) – Negli Stati Uniti l’autorità di controllo della Borsa, la Sec, ha stabilito che anche le comunicazioni fatte da aziende quotate sui propri profili personali o aziendali di Facebook e Twitter hanno valore legale. Non solo. Se ciò che viene scritto sui social network non è pubblicato contemporaneamente sul sito aziendale, scattano multe salatissime perché così facendo si fa una sorta di insider trading. In Italia la situazione è molto diversa. Oggi le comunicazioni delle società quotate sono gestite dalla Consob, l’omologa della Sec, e da Borsa Italiana attraverso il sistema Sdir-Nis. Ogni comunicato viene inviato alla Consob che lo valuta e chiede eventuali modifiche o chiarimenti, poi – stabilito il ‘via libera’ – comunica alle aziende quando potranno rendere pubblica la loro comunicazione. A quel punto scatta l’invio dei comunicati stampa e la pubblicazione sul proprio sito internet. E gli obblighi sono sostanzialmente esauriti. Quasi nessuno, oggi pubblica trimestrali o simili sui profili social, che sono prevalentemente utilizzati a scopi commerciali o di advertising, ma nulla vieta di farlo dopo che la Consob ha dato il via libera.

“Tutte le società quotate però, se la Consob imponesse l’obbligo di mettere anche su Twitter e Facebook i nostri comunicati, hanno strutture adeguate a farlo” spiega il portavoce di una primaria azienda quotata. “Ci sono i tempi e le professionalità sufficienti, per le aziende non quotate è invece molto diverso, hanno mezzi più ridotti” spiega ancora. Insomma il gap con gli Stati Uniti non è poi così ampio. Altri però la pensano diversamente. “Serve una grande prudenza, perché prima di arrivare a comunicare sui social network i dati sensibili, le aziende dovrebbe tornare a imparare a comunicare” spiega Luciana Righetti, segretario generale di ‘Professione comunicatore’, associazione che raggruppa gli operatori del settore della comunicazione d’impresa, “da noi sarebbe pesante parificare la comunicazione ufficiale a quella su social network” aggiunge. Cosa che invece sarà d’ora in poi negli Usa, dove la Sec ha preso spunto dal caso del ceo di Netflix (società che offre streaming online on demand di film e videogiochi), Reed Hastings, che ha postato sul suo profilo prima di renderla pubblica sul sito aziendale, un dato record sul traffico del suo sito. Il prezzo delle azioni di Netflix aveva cominciato ad aumentare passando da 70,45 dollari al momento del post su Facebook, a 81,72 dollari alla chiusura del giorno di negoziazione successivo. Ma nulla spiegava ufficialmente quell’apprezzamento, se non la pagina Facebook di Hastings.

La Sec però non ha multato il manager o l’azienda, riconoscendo che vi è stata incertezza del mercato circa l’applicazione di un regolamento sui social media del 2008. “Oggi molti usano Facebook e Twitter come uno sfogo – prosegue Righetti – un luogo di colloquio, anche nelle aziende. Quindi direi che in Italia non siamo ancora maturi” spiega Righetti che auspica una rivoluzione più ampia: “Le aziende devono tornare a investire sui comunicatori, che sono risorse preziose e su cui invece si spende molto meno che uno slogan”. Ma che valore ha ciò che scrive un singolo sul proprio profilo social, ad esempio un direttore di un telegiornale circa il futuro della proprio azienda? O un console che posta video di concerti di estrema destra? O un ufficio stampa di un ente pubblico fondamentale? La materia è vasta e complessa, specie perché poi le piattaforme dei social network hanno spesso regole e legislazione tutte particolari. “Esistono in molte aziende dei codici di condotta – spiega un altro comunicatore di primo livello – e di riservatezza, sia nel bene che nel male. Tanto più per le aziende quotate, che se anche non contemplano il caso specifico, possono essere ‘allargati’ anche a Twitter e Facebook”. In alcuni casi dei lavoratori sono stati già sospesi per aver dato giudizi incauti sulla propria azienda, quindi meglio la prudenza. A prescindere dalla Consob.

© Copyright LaPresse - Riproduzione Riservata