Alessandro Impagnatiello avvelenò Giulia Tramontano con “somministrazioni tossiche” di topicida per mesi non perché aveva premeditato l’omicidio della 29enne ma per eliminare il “feto” che portava in grembo di cui “auspicava la soppressione”. Così la Corte d’appello di Milano nelle motivazioni della sentenza di condanna all’ergastolo a carico dell’ex barman dell’Armani Cafè per il delitto di Senago del 27 maggio 2023, in cui ha escluso dall’omicidio l’aggravante della premeditazione.
Secondo i giudici popolari, guidati dalla presidente Ivana Caputo e la giudice a latere Franca Anelli, la volontà di uccidere la compagna, incinta al settimo mese, sarebbe maturata “non prima” delle 17 di quel sabato di due anni fa, quando Impagnatiello fugge dal posto di lavoro in centro a Milano per non dover incontrare la fidanzata e l’amante, collega di lavoro, assieme. L’idea di uccidere “insorge implacabile quando comprende e realizza di non essere riuscito a dissuadere la sua compagna dall’incontrarsi proprio all’Armani Bar, in quel suo prezioso posto di lavoro che – come la stessa Giulia gli aveva lasciato intendere – forse era già andato perduto” con il messaggio “io sono davanti al tuo lavoro che credo che da oggi non lo sarà mai più”, si legge ancora nelle motivazioni della sentenza.
Secondo la Corte d’assise d’Appello “è irrilevante conoscere quali azioni siano state compiute in quelle due ore di attesa” dall’imputato, “se abbia rimosso il tappeto, fatto spazio tra i mobili oppure coperto il divano con un telo impermeabile” come ipotizzato nel corso dei due processi ma mai dimostrato in via definitiva. Per contestare la “premeditazione” conta solo “ciò che albergava nel suo animo” in quel lasso temporale. Tramontano “non poteva sapere e, del resto, nessuno poteva metterla in guardia”, conclude la sentenza, che “in quel momento la sua ‘condanna a morte’ era stata decretata”.
C. Appello: “In Impagnatiello furia rabbiosa, voleva punire Tramontano”
Alessandro Impagnatiello “non si è limitato ad uccidere” la compagna Giulia Tramontano “attraverso il metodo che riteneva più immediato ed efficace” ma “ha voluto dare sfogo ad altro: c’era una furia rabbiosa da scaricare”, una “punizione da infliggere e una frustrazione da canalizzare in energia violenta e omicida”, si legge ancora nelle motivazioni con cui la Corte d’assise d’Appello di Milano ha riconosciuto anche in secondo grado l’aggravante della crudeltà nel delitto di Senago, condannando all’ergastolo il 32enne. I giudici hanno considerato il numero di coltellate – 37 – di cui 11 quando la donna incinta era ancora viva e 24 “lesioni cervicali”. “Il numero e la reiterazione dei colpi non sono, in questo caso, una superflua, macabra e stilistica enumerazione – si legge nella sentenza -. Valgono a motivare la sussistenza della circostanza aggravante perché rispondenti a lesioni inutilmente afflittive”. Pur avendo escluso la premeditazione la Corte d’assise d’Appello parla di “dolo di proposito” in cui l’ex barman ha avuto il tempo di “scegliere, tra le tante armi improprie e corpi contundenti che in tutti gli ambienti domestici è agevole reperire, lo strumento da impiegare per uccidere” e di decidere “come, quando e dove colpire la vittima” colta di “sorpresa”, alle spalle, per “impedire ogni difesa”.

