Avrebbe suggerito a un imputato in un processo per direttissima di dire che "era meglio non indicare un indirizzo" di domicilio tanto da farlo finire in carcere

Accusato a 91 anni di mentire nelle traduzioni davanti ai giudici, per far finire in carcere uno straniero arrestato, e indignato per l’accusa ricevuta dopo 59 anni al servizio della giustizia italiana: “Che interesse avrei mai a farlo?”. A parlare con LaPresse è lo storico e fra più stimati interpreti di arabo e francese in servizio al Tribunale di Milano, il dottor Raouf Yassa, nato al Cairo nel 1932 e iscritto all’albo dei consulenti tecnici ‘Periti estimatori – Traduttori’ dal 1964, che è accusato di aver suggerito ad un imputato in un processo per Direttissima di dire che “era meglio non indicare un indirizzo” di domicilio a Milano.  Tanto da far optare il giudice per la custodia cautelare in carcere, come avviene codice alla mano nei confronti di chi è “privo di stabile dimora”. Sarebbe successo durante l’udienza di convalida dell’arresto di un marocchino, A. T., lo scorso 29 giugno. Un mese più tardi, il 21 luglio, lo straniero si ripresenta in aula con una nuova interprete, Leila Hassoun, chiedendo il rito abbreviato. Il suo avvocato domanda se, in caso di condanna, la pena possa essere scontata ai domiciliari in un appartamento di via Padova 10. Lì “dimoro abitualmente ospite di un mio connazionale da cui ho affittato un posto letto – mette a verbale l’accusato – non l’ho riferito alla scorsa udienza perché l’interprete aveva detto che era meglio io non indicassi un indirizzo”.

A riferire tutto quando l’accaduto al coordinatore della sezione Direttissime del Tribunale, Marco Tremolada, è il giudice della settima sezione penale Mauro Gallina. Scrive che “prima della celebrazione dell’udienza” l’interprete Hassoun si sarebbe avvicinata a lui e avrebbe “confusamente accennato” alla vicenda ma era stata “liquidata sbrigativamente ritenendo l’interlocuzione non consona alla forma processuale”. Da qui la trasmissione degli atti alla Procura di Milano per eventuali valutazioni penali e il procedimento disciplinare nei confronti del 91enne, laureato in legge in Egitto, aperto il 27 luglio dalla giudice Margherita Monte, presidente della quinta sezione civile del Tribunale di Milano e Delegata per l’albo Ctu e Periti con l’accusa di aver alterato la “genuinità della risposta dell’imputato” e di una “grave violazione dell’obbligo di adempiere con fedeltà l’incarico di interprete”. L’avvocato Yassa rischia una delle tre sanzioni disciplinari previste per chi non tiene una “condotta morale” o non ottempera “agli obblighi derivanti dagli incarichi ricevuti”: l’avvertimento; la sospensione dall’albo per un tempo non superiore ad un anno; la cancellazione dall’albo.

L’egiziano, che nel 2024 sarà al suo 60esimo anno di traduzioni orali e scritte, però non ci sta. “Non avevo alcun interesse a farlo finire in carcere”, spiega a LaPresse e “dopo tutto questo tempo sarebbe brutto finire così”. “Va a toccare la dignità e la professionalità che da anni mi hanno guidato in questo lavoro”, ha messo per iscritto inviando una lettera ai giudici Monte e Tremolada e rendendosi “disponibile a qualsiasi chiarimento o confronto che possano ristabilire la correttezza dei fatti avvenuti” perché quelli descritti dalla seconda interprete araba “non corrispondono alla realtà”.

Il 91enne ha chiesto che durante l’istruttoria vengano sentiti sulla sua “professionalità” i magistrati con cui ha lavorato negli anni a cominciare dalla presidente della nona sezione penale Mariolina Panasiti. In un quaderno ha raccolto tutti gli encomi ricevuti nei decenni inclusi quelli battuti a macchina da scrivere: l’allora Ufficio Istruzione che negli anni ’80 parla di un “perito” che “ha portato a termine con scrupolo e cure esemplari” il proprio lavoro ed è stato scelto per la “fiducia della quale egli gode presso questo ufficio, trattandosi di incarico di particolare delicatezza”; lo storico giudice istruttore di Milano Guido Salvini che si occupava di stragi e strategia della tensione (oggi Gip) che come magistrato di sorveglianza propone nel 1984 di far frequentare a Raouf Yassa il carcere “allo scopo di partecipare al sostegno morale dei detenuti di altra nazionalità e al loro futuro reinserimento nella vita sociale”. Il direttore dell’Isitituto di Rieducazione per Minorenni (oggi IPM Beccaria) che lo chiama nel 1976 per i minori provenienti da Stati arabi.

La Procura di Milano che scrive alla società di cui era dipendente, la storica compagnia assicurativa Riunione Adriatica di Sicurità (Ras) con la sede in Corso Italia a Milano perché Raouf Yassa “oltre ad essere laureato in Legge, parla perfettamente l’arabo” e chiede di renderlo “disponibile” quando in base alle “esigenze di questo ufficio”. Lo fa più volte negli anni: nel 1975 con l’allora procuratore aggiunto Isidoro Alberici, poi qualche anno più tardi con il procuratore Bruno Siclari e ancora nel 1983. Decine di carteggi che l’avvocato egiziano figlio della borghesia del Cairo che ha abbandonato il Paese nord africano sotto il governo di Nasser intende far valere durante il suo procedimento disciplinare su cui al momento vige il massimo riserbo. Tra i giudici delle Direttissime in Tribunale a Milano c’è chi prova a stemperare la tensione: “Forse si è trattato di un errore o di un incomprensione – raccontano – e comunque sono numerosi le ‘liti’ fra gli interpreti”. I più acuti ed esperti ricordano anche la recente giurisprudenza costituzionale in materia di ‘Diritto al silenzio’ dell’imputato. Diritto che si estende alle ‘qualità personali’ (per esempio i carichi pendenti) ma anche all’indirizzo di domicilio. Forse si è trattato di un caso in cui l’imputato ci ha ripensato dopo qualche settimana.

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