Sono passati 33 anni dall'omicidio di Simonetta Cesaroni, 21 anni, uccisa in un ufficio con 29 coltellate

A 33 anni dall’omicidio di Simonetta Cesaroni, la ragazza di 21 anni assassinata con 29 coltellate il 7 agosto del 1990 dentro un ufficio in via Carlo Poma 2, le indagini potrebbero essere riaperte, ripartendo dall’analisi di una macchia di sangue di gruppo A positivo, repertata dalla Polizia sulla maniglia di una porta e mai presa in considerazione da inquirenti ed investigatori. Anche il tagliacarte potrebbe non essere l’arma del delitto, ma un lama più lunga ed appuntita come uno spadino da uniforme.

Nella relazione della Commissione parlamentare Antimafia, trasmessa alla Procura della Repubblica di Roma nei mesi scorsi, vengono indicati i punti da cui bisognerebbe ripartire per riaprire le indagini. Tra gli elementi che la Commissione indica, ci sarebbe anche la macchia di sangue appartenente a un soggetto fino a ora ignoto e che non ha trovato corrispondenza e compatibilità nemmeno con i sospettati che sono stati indagati nel corso degli anni.

Quando gli investigatori della Sezione Omicidi della Squadra Mobile entrarono nell’appartamento, al terzo piano dello stabile di Via Carlo Poma 2 dove venne consumato il delitto, trovarono il corpo di Simonetta seminudo, in una pozza di sangue in parte ripulita da qualcuno che intendeva far sparire il corpo, se Paola la sorella della vittima, non lo avesse trovato nell’ufficio dove Simonetta lavorava da qualche giorno.

Le indagini si concentrarono su Federico Valle, un ragazzo che allora abitava nel palazzo la cui posizione fu archiviata. Subito dopo, il portiere dello stabile Petrino Vanacore, venne iscritto nel registro degli indagati. Tre giorni dopo fu arrestato, ma il 26 aprile 1991 le accuse contro di lui e altre cinque persone sospettate vennero archiviate definitivamente.

Nel mese di marzo del 2010, tre giorni prima di essere ascoltato come testimone nel processo contro Raniero Busco, che era il fidanzato di Simonetta Cesaroni quando venne assassinata, Vanacore si suicidò gettandosi in mare in una località della Puglia, dove si era trasferito da anni. Poco distante dal corpo di Vanacore, gli investigatori trovarono durante il sopralluogo un cartello dove campeggiava la scritta: “20 anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio”. Nei processi che seguirono, Raniero Busco venne condannato nel processo di primo grado, poi assolto dalla Corte d’Appello, con la sentenza di assoluzione che venne confermata dalla parte della Cassazione nel 2014.

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