Dal giorno dell'arresto al rinvio a giudizio di cinque carabinieri: le tappe principali di uno dei casi più seguiti e dibattuti che ancora attende la conoscere la verità
Sette interminabili giorni di agonia e sette difficili anni di processi per avere giustizia. Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre 2009 in una stanza del reparto detenuti dell'ospedale Sandro Pertini di Roma, dopo essere stato arrestato dai carabinieri una settimana prima (il 15 ottobre 2009) nel parco degli Acquedotti, trovato in possesso di 20 grammi di hashish e alcune dosi di droga. Ma la sua storia continua a vivere nelle aule di tribunale. E continua a vivere anche in tv e al cinema: lo scorso 12 settembre su Netflix e in alcune sale cinematografiche è uscito il film "Sulla mia pelle", la cronaca degli ultimi sette giorni di sofferenza di Cucchi interpretato da Alessandro Borghi e diretto Alessio Cremonini.
La famiglia vuole la verità: la sorella Ilaria, il padre Giovanni e la madre Rita Calore pretendono di sapere come è morto il loro Stefano, ragioniere di 31 anni con un problema di tossicodipendenza, impegnato nello studio di famiglia, nel quartiere Casilino, e arrivato in ospedale con il corpo martoriato. Era un ragazzo gracile, ma alla sua morte peserà appena 37 chili. L'ipotesi è che sia stato massacrato a pugni e calci nella caserma dei carabinieri dove era stato portato dopo l'arresto. "Ucciso di botte", secondo i parenti. che hanno trovato la forza di denunciare la storia pubblicando sui giornali le foto del cadavere del loro Stefano con il viso tumefatto e le ossa spezzate. "Non posso dimenticare le urla disperate dei miei genitori all'obitorio. Piangevano, li sentii gridare 'Dio mio, che ti hanno fatto'. Io non avrei voluto vederlo, preferivo ricordarlo con il suo sorriso. Ma poi ho ceduto e ho visto una scena pietosa: un corpo irriconoscibile, non sembrava neppure Stefano. Aveva il volto tumefatto, un occhio fuori dall'orbita, la mascella rotta, l'espressione del volto segnato dalla sofferenza e solitudine nella quale era morto": è lo straziante ricordo della coraggiosa sorella Ilaria in aula il 17 luglio 2018 davanti alla Corte d'assise. Un processo, doloroso e complicato, voluto proprio dalla famiglia Cucchi, iniziato nel 2011 in cui viene chiesto il rinvio a giudizio per 13 persone (tre infermieri, sei medici, tre agenti di polizia penitenziaria e il direttore dell’ufficio detenuti). Due anni dopo, nel 2013, viene ufficializzata la sentenza di primo grado: assolti gli agenti penitenziari e gli infermieri coinvolti e condannati i medici del Pertini per omicidio colposo. Ma non è finito. L'anno dopo, è il 2014, tutti gli imputati sono assolti nel processo d'appello per insufficienza di prove. Una sentenza che la famiglia Cucchi non accetta e decide di depositare il ricorso in Cassazione. E ora la procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di cinque carabinieri.
Maxi perizie, 45 udienze, 120 testimoni ascoltati insieme a decine di consulenti tecnici. Ecco le tappe principali di uno dei casi più seguiti e dibattuti dall'opinione pubblica che ancora attende la conoscere la verità.
– Stefano Cucchi viene arrestato il 15 ottobre 2009 al parco degli Acquedotti trovato in possesso di droga e portato nel carcere di Regina Coeli. Il giorno dopo viene processato per direttissima. E già durante il processo mostra difficoltà a camminare e a parlare, con evidenti ematomi sul viso.
– Dopo l'udienza le sue condizioni peggiorano e viene visitato all'ospedale Fatebenefratelli
– 22 ottobre 2009. Trasferito poi al Pertini, Stefano viene trovato morto in una stanza del reparto detenuto dell'ospedale romano dove era ricoverato da quattro giorni.
– marzo 2011. Comincia il processo di primo grado. Viene chiesto il rinvio a giudizio per 13 persone: tre infermieri, sei medici, tre agenti di polizia penitenziaria e Claudio Marchiandi, direttore dell’ufficio detenuti (che aveva chiesto il rito abbreviato e viene rinviato a giudizio. È condannato a due anni per i reati di favoreggiamento, falso e abuso in atti d'ufficio per poi essere assolto in secondo grado ad aprile 2012). Per i medici le accuse sono di falso ideologico, abuso d'ufficio, abbandono di persona incapace al rifiuto in atti d'ufficio, favoreggiamento, omissione di referto. I poliziotti sono accusati di lesioni aggravate e abuso di autorità.
– 5 giugno 2013. Dopo tre anni di processo, è ufficializzata la sentenza di primo grado: assoluzione per gli agenti penitenziari e per gli infermieri. Condannati i medici del Pertini per omicidio colposo.
– 31 ottobre 2014. Tutti gli imputati sono assolti nel processo d'appello per insufficienza di prove.
– gennaio 2015. I giudici della Corte d'appello depositano le motivazioni della sentenza, con la possibilità di svolgere nuove indagini.
– marzo del 2015. I legali della famiglia Cucchi e la procura decidono di depositare il ricorso in Cassazione contro la sentenza dell'ottobre 2014.
– dicembre 2015. La Cassazione accoglie il ricorso, annulla le assoluzioni dei medici ma conferma quelle dei tre agenti della penitenziaria. La procura apre una nuova indagine e viene chiesta un'altra perizia per stabilire se Stefano abbia subito maltrattamenti da parte dei carabinieri.
– aprile 2016. Ilaria Cucchi lancia la petizione (che raccoglie 200mila firme) per chiedere che venga introdotto il reato di tortura in Italia.
– ottobre 2016. I periti sostengono che la morte di Cucchi sia stata "causata da un attacco di epilessia in un uomo con patologia epilettica"
– gennaio 2017. La procura chiede il processo con nuovi capi d'accusa a carico di tre carabinieri: Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, che devono rispondere di omicidio preterintenzionale pluriaggravato dai futili motivi e dalla minorata difesa della vittima, abuso di autorità contro arrestati, falso ideologico in atto pubblico, calunnia.
– febbraio 2017. La procura chiede il rinvio a giudizio di cinque carabinieri. Tre sono accusati di omicidio preterintenzionale. Agli altri due contestati i reati di calunnia e falso.
– ottobre 2018. Arriva una svolta clamorosa: uno dei cinque carabinieri imputati per la prima volta ammette che il pestaggio c'è stato e accusa gli altri quattro. Secondo quanto riferito da Francesco Tedesco, tutti sapevano, compreso il maresciallo Roberto Mandolini, all'epoca dei fatti a capo della stazione dove venne eseguito l'arresto
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