di Fabio De Ponte e Laura Carcano
Torino, 29 giu. (LaPresse) – “Quello che è successo di nuovo in Tunisia (guarda qui il VIDEO) mi ha riportato a quello che è successo a noi. Non avrei voluto guardare (FOTO), ma non ce la potevo fare a non guardare”. Carolina Bottari è una delle persone sopravvissute alla strage del museo del Bardo di Tunisi del 18 marzo scorso, attentato in cui perse il marito, Orazio Conte. “Rivivo il terrore – racconta – è stato tremendo. In quei momenti non sai cosa sta succedendo”. “Quando ti sparano in questo modo – prosegue nel suo racconto Carolina Bottari, che proprio nei momenti dell’attacco al Bardo riuscì a contattare telefonicamente un cronista di LaPresse che poi diede l’allarme – non sai dove ti hanno colpito, ti sembra che ci sia il finimondo, il terremoto”. Tre figli universitari, da allora non ha mai rilasciato interviste. E’ in sedia a rotelle, “ancora fino al prossimo anno”, dice.
Cosa ha provato vedendo questo nuovo attentato in Tunisia?
“Solo chi l’ha vissuto può comprendere il terrore, la paura che si prova. In quei momenti non sai cosa pensare. Dalle testimonianze che ho sentito, questa volta loro all’inizio pensavano che fossero scontri. Noi, invece, al Bardo ci siamo subito resi conto. Dalla finestra ho visto un poliziotto che indietreggiava. Sentivamo sparare. Per la paura siamo entrati in quella stanza, abbiamo pensato di nasconderci. Lì dopo poco è arrivato un uomo. Era vestito con pantalone e giacca nera, come una persona qualsiasi. Ci ha sparato col mitra, non ha avuto pietà. Poi è uscito. Neanche il tempo di renderci conto in che stato eravamo ed è rientrato. Ci ha guardato negli occhi e ci ha sparato di nuovo. Il medico legale ha detto che mio marito è morto la seconda volta, quando è tornato. La prima l’aveva ferito, con la seconda l’ha ucciso. Ci ha sparato come stesse bevendo un bicchiere d’acqua”.
Che idea si è fatta di quello che è successo al Bardo?
“L’assassino prima ha fatto uscire due arabi, una signora in chador e il marito. Ha fatto loro segno con la mano di andarsene e quelli sono scappati. A questo punto avevo capito che era per noi. Non ha sparato con rabbia, non ci ha urlato contro. E’ stato molto freddo. Cercano noi occidentali ma io non so cosa vogliono di preciso da noi. Che possiamo fare, una guerra contro non si sa chi? Deve essere il popolo tunisino, i musulmani che credono nella libertà e nella democrazia, a ribellarsi. Non si può vivere con questa paura, adesso c’è il terrore anche qui”.
Com’era quest’uomo?
“Era chiaro di capelli, un po’ basso. Era giovane ma non sembrava un bambino, sui 25 anni. Non era un arabo, ma non era neanche un occidentale. La pelle era olivastra, ma i capelli mi hanno fatto tanta impressione perché erano chiari. Era a volto scoperto, lo erano tutti. Non l’ho visto tra quelli morti né tra quelli di cui mi hanno fatto vedere le foto. Sarà ancora in giro, ho sempre paura di incontrarlo. Spero che lo prenderanno”.
Cosa le ha dato la forza di reagire?
“Ho pensato ‘abbiamo tre figli’ e qualcuno di noi deve tornare. Così ho preso dalla borsa il cellulare. Dopo aver dato l’allarme, abbiamo sentito ancora spari e ci siamo buttati sui corpi morti fingendoci morti anche noi”.
Cosa ricorda dei giorni in ospedale in Tunisia dopo l’attentato?
“Devo ringraziare i medici. Tutti i tunisini sono stati bravi, hanno fatto il possibile. Con i mezzi che avevano mi hanno fatto un ottimo intervento. Non avevano sangue e il mio gruppo è lo zero negativo, mi hanno fatto trasfusioni di sangue zero positivo. Si sono guardati in faccia e si sono detti ‘o muore o la salviamo’. Quando sono arrivata qui sono andata in tilt con i reni. Ma hanno fatto bene, non mi avessero fatto la trasfusione di queste tre sacche di sangue sarei morta, perché ne avevo perso davvero molto”.
Ora come sta?
“Io sono ancora in sedia a rotelle, ancora fino al prossimo anno, devo sperare che cresca l’osso per poter camminare. Anche il braccio è stato colpito da una pallottola. Lo muovo un pochino ma è rimasta una scheggia di bomba”.
E’ arrabbiata con i tunisini?
“No, io sono meridionale. Sono un popolo come noi, io ho vissuto tanto in meridione da piccola. C’era quel rapporto di buon vicinato, quel prendersi cura, in Tunisia mi sembrava di stare nella Sicilia di trenta anni fa. Mi sentivo persino a casa. I tunisini sono stati buonissimi, i medici sono stati meravigliosi. Mi chiedevano perdono. Sono rimasta in contatto con alcuni medici, ci scriviamo anche su Facebook. Voglio scrivere adesso per esprimere il mio dolore per loro”.
Lo Stato l’ha aiutata?
“No. Io ho tre figli che devono studiare, andare all’università. Io ho uno stipendio da dipendente comunale, io ai miei figli voglio dare le stesse cose che avrei dato loro se c’era mio marito vivo. Marco, il più grande, ha 27 anni. Fa l’ultimo anno di università, il prossimo anno si laurea. Il secondo, Davide, compie 24 anni a luglio. A settembre si deve iscrivere alla magistrale di architettura. Nadia invece adesso farà il test per biologia”.
Ha chiesto un aiuto?
“Qui a Torino il sindaco ha chiesto ai colleghi di raccogliere dei soldi, mettendo ciascuno una cifra spontaneamente, da dare alle famiglie delle vittime, a noi e a quella di Antonella Sesino, morta nell’attentato, che lavorava come me in Comune. Siamo sempre in contatto con lo staff del sindaco, sono sempre disponibili, devo dire che l’amministrazione locale mi è vicina. Però vorrei quello che mi spetta per legge, io non voglio l’elemosina. C’è una legge per tutelare le famiglie in questi casi, abbiamo fatto richiesta. La prefettura il 5 maggio ci ha scritto che ha inoltrato la domanda al ministero dell’Interno. Poi deve passare al ministero degli Esteri, poi dell’Economia e poi deve rifare il giro degli uffici. Mi hanno detto che ci vogliono quasi due anni per le procedure burocratiche per avere gli aiuti dal governo. Io due anni non ce la posso fare a vivere. Quanto tempo deve impiegare la burocrazia? Ho intenzione di scrivere al presidente Mattarella per chiedergli col cuore in mano di sollecitare questa cosa, perché ai miei ragazzi devo dare un sostentamento. Finora non si è fatto vivo nessuno. Loro hanno detto che non ci abbandonavano e non ci devono abbandonare”.
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