di Vincenzo Imperitura Roma 18 dic. (LaPresse) – Con la pronuncia della Corte di cassazione si è chiusa definitivamente la vicenda legata alla morte della collaboratrice di giustizia Lea Garofalo, ammazzata nel novembre del 2009 a colpi di arma da fuoco dopo essere stata torturata per ore dal suo ex compagno e dai suoi complici che, dopo avere bruciato il cadavere della vittima, gettarono i suoi resti in un tombino. La sentenza – che ha visto la conferma dell’ergastolo per Carlo Cosco (ex compagno della collaboratrice di giustizia), per suo fratello Vito, per Rosario Curcio e per Massimo Sabatino, mentre Carmine Venturino, l’ex fidanzato della figlia di Lea Garofano, è stato condannato a 25 anni di reclusione – chiude quindi il cerchio su un omicidio terribile, maturato in un contesto criminale fatto di mafia arcaica e spaccio di droga nelle piazze della movida milanese. Un processo lungo,quello sulla morte della collaboratrice di giustizia: un processo che ha mostrato il coraggio della giovane figlia di Lea, Denise, che non ha esitato ad accusare il proprio padre come ideatore ed esecutore dell’omicidio,e che si è chiuso, in appello, con la confessione di Cosco che, poco prima che i giudici di secondo grado si chiudessero in camera di consiglio, raccontò di avere ammazzato la compagna, giustificandosi con un raptus di violenza non controllato. I giudici hanno escluso l’aggravante mafiosa, ma il contesto in cui è maturata l’uccisione resta comunque ancorato al crimine organizzato calabrese sbarcato a Milano. Lea Garofalo era infatti figlia di uno dei boss di Petilia Policastro, nel crotonese. La decisione di collaborare con la giustizia venne fuori all’indomani dell’omicidio del fratello della donna, Floriano, ammazzato a colpi di arma da fuoco nella sua abitazione calabrese. Fu Lea Garofalo a raccontare ai giudici milanesi che a premere il grilletto fu il fratello del suo compagno. Da lì il percorso da collaboratrice di giustizia, che durò fino al 2006, quando la donna venne esclusa perché le sue dichiarazioni non trovarono sufficienti riscontri investigativi. Poi la battaglia legale e il ritorno sotto la tutela della Stato fino al 2009, quando abbandonò la località protetta dove era stata trasferita riavvicinandosi al compagno. Fino al novembre del 2009, quando proprio il suo compagno la uccise in un capannone della periferia milanese, gettandone i resti in un tombino.
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