Palermo, 16 dic. (LaPresse) – Il verdetto arrivò dopo 35 giorni di camera di consiglio: 19 ergastoli, 2.665 anni e sei mesi di carcere, multe per undici miliardi e mezzo delle vecchie, 114 assoluzioni. Era il 16 dicembre del 1987 e nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo calava il sipario sul primo Maxiprocesso alla mafia. Il presidente della Corte d’assise, Alfonso Giordano, impiegò un’ora e mezza per la lettura del dispositivo di una sentenza che riguardava 456 imputati. Il processo si era aperto in una piovosa mattina del 10 febbraio 1986 con 475 alla sbarra: in 22 mesi giudici, pm, avvocati e imputati avevano percorso un sentiero fatto da 349 udienze e 1.134 interrogatori. Numeri che giustificavano quel ‘Maxi’ affibbiato a un processo che fece storia perchè lo Stato italiano giudicava per la prima volta Cosa nostra come una organizzazione articolata in ruoli apicali e manovalanza, non come semplice criminalità. Era la chiave di lettura del pool antimafia di Antonino Caponnetto, che con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta aveva istruito il ‘Maxi’.

Per fare luce su 95 omicidi, stragi, faide interne e traffici di droga che vedevano al centro la ‘Commissione’ di Cosa nostra (450 i capi d’imputazione), lo Stato italiano aveva costruito una mastodontica aula bunker accanto al vecchio carcere borbonico. Una sorta di anfiteatro inespugnabile, con 30 celle, costruito con 7.500 metri quadrati di cemento armato e costato 30 miliardi delle vecchie lire. Un’aula che esiste ancora oggi e che viene utilizzata per diversi processi, come quello sulla presunta trattativa Stato-mafia. In una Palermo blindata e impaurita da guerre di mafia e omicidi eccellenti, i grandi numeri non riguardavano soltanto la vita interna del processo, ma anche la sicurezza: oltre duemila gli uomini delle forze dell’ordine impegnati nella vigilanza all’interno e all’esterno dell’aula. Alla sbarra finirono alcuni pezzi da novanta della mafia di allora: da Pippo Calò, detto ‘il cassiere della mafia’, capo della famiglia di Porta Nuova, a Michele Greco, ‘il Papa’, arrestato pochi giorni dopo l’inizio del Maxiprocesso, passando per i famigerati killer della seconda guerra di mafia, Pino Greco ‘scarpuzzedda’ e Mario Prestifilippo, Rosario Riccobono, Filippo Marchese, Francesco Madonia, i corleonesi Totò Riina, Bernardo Provenzano, Luciano Liggio e il boss catanese Nitto Santapaola.

Rimasero fuori dal processo, per esplicita scelta dell’ufficio Istruzione, le connivenze tra Cosa nostra e il potere politico, soltanto sfiorate dall’ordinanza-sentenza che aveva dato origine al ‘Maxi’ con la chiamata in causa dei potenti cugini Salvo, gli esattori di Salemi. Una scelta dettata non certo dalla voglia di coprrie eventuali responsabilità ma da una precisa strategia: far rimanere il Maxiprocesso in una dimensione di criminalità organizzata, evitando valenze di tipo politico.

A guidare la navicella del Maxiprocesso insieme con Giordano l’allora giudice a latere Piero Grasso, oggi presidente del Senato, anche due giudici togati e sei popolari. A sostenere l’accusa furono chiamati Domenico Signorino e Giuseppe Ayala. Dall’altra parte del fiume oltre trecento avvocati, che pronunciarono 637 arringhe difensive. Nove mesi dopo quel 16 dicembre, Giordano e Grasso depositarono le 6.900 pagine di motivazione di una sentenza storica che avava sostanzialmente confermato il ‘teorema Buscetta’, il pentito principe del processo, ufficializzando per la prima volta l’esistenza di una organizzazione criminale chiamata Cosa nostra.

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