Roma, 3 ott. (LaPresse) – Non esiste di fatto per i migranti un canale legale per entrare in Italia dai Paesi esterni a Schengen. Non è possibile perciò acquistare un biglietto aereo e sbarcare a Fiumicino o Malpensa, mettersi a cercare lavoro e poi, se le cose vanno male, tornarsene a casa. E’ questa l’origine del fenomeno degli sbarchi.
La legislazione italiana prevede che chi voglia venire a lavorare in Italia debba essere chiamato nominalmente mentre si trova ancora nel proprio Paese d’origine. Deve cioè essere assunto da qualcuno che non lo ha mai visto, condizione evidentemente ben poco pratica.
La legge prevede che il datore di lavoro presenti la richiesta del nulla osta via internet al ministero dell’Interno nelle date stabilite dal decreto flussi, che quest’anno ha posto un tetto di 30mila ingressi. Una volta ottenuto il nulla osta, il datore di lavoro deve darne comunicazione al lavoratore, nel suo Paese di origine. A quel punto lo straniero deve recarsi presso la rappresentanza diplomatica italiana per richiedere il visto di ingresso. Ottenuto il visto, può fare ingresso in Italia e, firmato il contratto di soggiorno presso lo sportello unico, entro 8 giorni deve richiedere il permesso di soggiorno mediante i kit da ritirare negli uffici postali. Risultato: a seguire questa procedura sono gli stranieri che assumono connazionali e gli italiani che fingono di chiamare qualcuno dall’estero che invece si trova già clandestinamente nel territorio italiano. Il quale poi deve tornare al proprio Paese e ritirare i documenti là.
L’unica formula alternativa è quella della sanatoria: anche in questo caso si entra nel territorio clandestinamente e si attende la possibilità di regolarizzare la propria posizione. L’ultima sanatoria risale al settembre 2012. Furono 134mila le domande. L’ultimo decreto lavoro (il 76/2013 convertito nella legge 99/2013) ha poi previsto un ripescaggio per chi aveva presentato la domanda e se l’era vista respinta. Insomma il percorso prevede di fatto la clandestinità come tappa fissa per arrivare alla regolarità. L’ultima sanatoria prevedeva addirittura il requisito di essere in Italia irregolarmente da almeno 7 mesi: se qualcuno era appena arrivato da poco e voleva già regolarizzarsi ha dovuto rinunciare e aspettare la prossima, che ovviamente non si sa quando sarà.
Mentre il migrante attende la possibilità di regolarizzarsi, qualsiasi controllo lo espone al decreto di espulsione e al trattenimento al Cie, il centro di identificazione ed espulsione. Insomma ogni giorno può essere l’ultimo. E anche se riesce a superare questo lungo percorso a ostacoli, e arriva alla tanto agognata regolarità, non si può ancora considerare salvo. Sono numerosi gli stranieri che, dopo essere stati regolari per un certo periodo – anche per diversi anni – perdendo il lavoro tornano in condizione di irregolarità e finiscono al Cie. Anche l’agenzia LaPresse ha documentato in passato numerosi di questi casi.
Questo sistema fu introdotto dalla legge Turco-Napolitano del 1998, che prende il nome proprio dall’attuale presidente della Repubblica.
La legge si proponeva di mettere ordine nel frammentario quadro normativo precedente dominato dalla legge Martelli. Fu quella legge a introdurre i centri di espulsione, che all’epoca si chiamavano centri di permanenza temporanea (Cpt). Le legge Bossi-Fini del 2002 aveva poi accorciato la durata dei permessi, allargato fino a 18 mesi il tetto massimo per il trattenimento nei Cpt, cambiando il loro nome in Cie, e aveva introdotto il reato di clandestinità.
Comune denominatore tra le due normative è rimasto il fatto che per chi vuole arrivare in Italia per cercare lavoro l’unica possibilità è quella di tentare la sorte su un barcone.
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