Paolo de Montis, ex operaio e sindacalista CUB (Confederazione unitaria di base), è uno degli attivisti italiani che ha partecipato alla missione umanitaria della Global Sumud Flotilla, da cui è tornato il 4 ottobre, con un unico scopo: “Non ce la facevo più a vedere quei bambini morire di fame, sentire che l’esercito israeliano gli sparava in testa. Ora sono in pensione e mi sono detto: devo andare”. Partito con il cuore e la sua esperienza da elettricista e istruttore sub, Paolo racconta un viaggio durissimo, ben lontano da quella che lui definisce un’esperienza “politica e umana, non militare come volevano far credere”. Dopo l’abbordaggio da parte della marina israeliana, Paolo è stato trattenuto in carcere per due notti e tre giorni. “Il momento più difficile è stato l’arrivo in carcere. Siamo stati umiliati, rinchiusi in spazi strettissimi, per ore in furgoni blindati, senza acqua, cibo, né medicinali, anche a me, che sono iperteso, li hanno tolti”. Racconta di violenze e umiliazioni: “A un ragazzo hanno tolto la protesi, a un altro spezzato il braccio per mettergli le fascette”. Le condizioni erano drammatiche, con controlli continui, luci accese, urla, cani, e attacchi durante ogni protesta. “Soprattutto le donne hanno avuto grandi problemi con il ciclo mestruale”. Paolo ricorda, nell’intervista a LaPresse, il senso di isolamento e di abbandono, la scarsa assistenza da parte dello Stato italiano: “Abbiamo visto solo una volta la console, che ci ha fatto firmare documenti per l’espatrio forzato, senza ammettere alcuna responsabilità”. “Il governo ci ha contattato solo due volte, dicendo che una nave militare ci monitorava e poi che oltre 150 miglia non ci avrebbe più protetto. Mia moglie ha cercato di contattare la Farnesina, ma eravamo noi a dare le notizie, loro non sapevano nulla”. Paolo ha le registrazioni audio a conferma di queste chiamate. Emozionato, racconta di aver parlato con la compagna e la figlia poco prima dell’arresto: “Mia figlia mi implorava di tornare a casa, io le ho detto di aspettarmi, che sarei tornato”. Ora, una volta libero, Paolo è determinato a elaborare questa esperienza e a continuare a lottare: “A Gaza i bambini continuano a morire. Venerdì 10 avremo un incontro con gli avvocati. Vediamo cosa si potrà fare, ma non escludiamo nulla”.
