Roma, 18 set. (LaPresse) – “I cercapersone sono in commercio da più di 40 anni, e il software è più o meno quello. Questo mi porta a dire che quasi certamente non si è trattato di un cyberattacco. Il cercapersone è dotato di un’antenna che trasmette i messaggi e ha la particolarità di operare a grandissime distanze. Parliamo di aree che oscillano tra i 390 e i 450 chilometri quadrati. Questo vuol dire che qualcuno, molto banalmente, mettendosi al confine di Israele, riesce tranquillamente a mandare questi messaggi su un’area molto vasta. A quel punto abbiamo probabilmente la soluzione del mistero: il cercapersone ha una piccola carica esplosiva al suo interno, collegata al circuito classico che in questo caso funziona involontariamente da detonatore”. A dirlo a LaPresse è Riccardo Meggiato, esperto di cybersicurezza e informatico forense, commentando l’esplosione dei cercapersone in Libano. “Nel momento in cui mandiamo un messaggio – spiega Meggiato -, questo arriva e fa esplodere il cercapersone sfruttando anche un’altra peculiarità. Se tutti i cercapersone sono della stessa tipologia e sono configurati per lavorare tutti sulla stessa frequenza, si attiva quello che in gergo si chiama ‘broadcast’. Con un unico messaggio arrivo a tutti i cercapersone che lavorano su quella frequenza. E questo spiega perché contemporaneamente sono saltati tutti in aria”.

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