Milano, 11 giu. (LaPresse) – È durato solo un giorno il processo d’appello per Pierangelo Daccò, in carcere dal novembre del 2011 per il dissesto del San Raffaele. Dopo circa due ore di camera di consiglio, i giudici della seconda Corte d’Appello di Milano lo hanno condannato a 9 anni di reclusione per associazione a delinquere e bancarotta fraudolenta.
In primo grado Daccò è stato condannato a 10 anni, con rito abbreviato, dal gup Maria Cristina Mannocci. Dovrà anche pagare alle parti civili, la Fondazione del San Raffaele del Monte Tabor e i commissari nominati dal tribunale, una provvisionale, immediatamente esecutiva, di 5 milioni di euro. Il sostituto procuratore generale Piero De Petris, questa mattina al termine della sua requisitoria, aveva chiesto di confermare la sentenza di condanna per Daccò, ma di ridurre la pena inflitta in primo grado tenendo conto del fatto che la transnazionalità dell’associazione a delinquere è decaduta. I legali di Daccò, Giampiero Biancolella e Marssimo Krogh, invece hanno chiesto l’assoluzione piena per il loro assistito e hanno tenuto a sottolinearne lo stato di sofferenza causato dalla detenzione. Questa mattina i due avvocati avevano fatto istanza per rinviate il processo in attesa del deposito delle motivazioni della sentenza con cui il 30 aprile scorso il Tribunale ha assolto Gianluca Zammarchi, Fernando Lora e Carlo Freschi, coimputati di Daccò, mentre ha condannato Pierino Zammarchi a 5 anni di carcere. Richiesta subito respinta dal collegio presieduto da Flavio Lapertosa.
Nel corso dell’udienza, Daccò ha anche fatto dichiarazioni spontanee, spiegando di non aver mai pagato “una tangente” a Roberto Formigoni. L’uomo d’affari ha negato di aver mai rappresentato in Regione Lombardia il San Raffaele, il suo fondatore don Verzè e il suo allora braccio destro Mario Cal. “Da oltre venti anni rappresento in Regione un altro gestore molto importante e il San Raffaele non aveva bisogno di essere rappresentato da me perché era autoreferenziato – ha dichiarato – Don Verzé da oltre venti anni era rappresentato in Regione e lui e Cal erano amici di tutti i politici”. Erano “rapporti di amicizia e di business” quelli che lo legavano a Cal, ma per i suoi legali, questo non “non prova che Pierangelo Daccò conoscesse la situazione finanziaria del San Raffaele”. Non solo. I difensori hanno insistito sul fatto che non ci fossero prove che “le somme che alcuni imprenditori che avrebbero versato a Daccò fossero in danno della Fondazione” San Raffaele.
Daccò, nel corso delle sue dichiarazioni, ha anche respinto l’accusa di aver distratto 35 milioni per l'”affare” dell’aereo comprato dall’ospedale e utilizzato per i viaggi in Basile di don Verzé e Cal. “Io non posso aver distratto questa somma – ha detto in aula – come si può imputare a me il costo dell’aereo e della sua gestione? Io ho solo passato un contratto” per la realizzazione dell’aereo commissionato alla casa produttrice. Un “favore” a cui Daccò non ha voluto sottrarsi, dato che in quel periodo era molto esposto finanziariamente per un altro affare legato alla gestione dell’ospedale San Giuseppe, era interessato a mantenere buoni rapporti con l’ex numero due del San Raffaele, con cui stava avviando un servizio di air ambulance.
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