Il conflitto è ormai diffuso: da Gaza si è allargato al Libano, e ha poi toccato Yemen, Siria e Iraq, arrivando fino a Teheran
Il fuoco che covava sotto alla cenere del braciere mediorientale è tornato a divampare il 7 ottobre dello scorso anno, quando Hamas ha deciso di lanciare l’operazione ‘Alluvione Al-Aqsa‘. Circa 3mila terroristi abbattono le recinzioni che dividono la Striscia di Gaza con lo Stato ebraico facendo irruzione nei kibbutz, al festival musicale Nova, dove erano radunati migliaia di giovani, e nelle città vicine con auto, pick-up, motociclette e anche parapendii a motore. Contestualmente vengono lanciati oltre 5mila razzi. Israele, alle prese con le proteste interne dovute alla controversa riforma della giustizia voluta dal premier Benjamin Netanyahu, e il mondo intero, concentrato sulla guerra fra Russia e Ucraina, sono sotto shock.
Il bilancio è spaventoso: oltre 1200 vittime israeliane e 250 persone prese in ostaggio e portate nella Striscia di Gaza. La scintilla ha scatenato un incendio che, a 365 giorni di distanza, è ormai diventato fuori controllo. Gli appelli della comunità internazionale sono rimasti lettera morta, e con il passare dei mesi è diventato man mano sempre più chiaro che nessuno degli attori in campo ha realmente interesse a spegnere le fiamme prima di aver acquisito un vantaggio significativo. “Siamo in guerra”, ha detto Netanyahu nelle ore successive al 7 ottobre, prima di lanciare l’offensiva a Gaza che in un anno ha fatto oltre 40mila morti. Le stesse parole sono state usate nelle scorse ore dai vertici iraniani, in seguito al secondo attacco diretto lanciato su Israele dopo quello dello scorso aprile.
Il conflitto è ormai regionale. Da Gaza la guerra si è allargata al Libano, ha toccato Yemen, Siria e Iraq, arrivando fino a Teheran, in una sorta di resa dei conti rimasta sopita negli anni. Lo Stato ebraico può contare sull’appoggio dell’Occidente, che si è mosso per dare soccorso al sistema di difesa ‘Iron Dome’ quando Teheran ha lanciato i suoi attacchi. Il regime degli Ayatollah invece può indirizzare le operazioni dei suoi ‘proxy’ nella regione: Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano e gli Houthi nello Yemen, più le milizie in Siria e Iraq.
Incassato il colpo del 7 ottobre, Israele ha deciso di muoversi su più fronti. L’esercito ha portato avanti l’offensiva a Gaza prima e in Libano poi, mentre l’intelligence, assorbito lo sgomento per non essere stata in grado di anticipare l’operazione di Hamas, si è dedicata a individuare i vertici delle varie fazioni nemiche per una serie di assassinii mirati. Sotto i colpi di Israele sono caduti sia il capo politico di Hamas Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran dove aveva appena partecipato all’insediamento del nuovo presidente Masoud Pezeshkian, sia lo storico leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ucciso a Beirut. Si presume che anche il ‘fantasma di Gaza’ Mohammed Deif, il leader militare di Hamas nella Striscia, sia stato eliminato, mentre ci sono informazioni discordanti sulla sorte di Yahya Sinwar, il capo di Hamas e ultima ‘primula rossa’ ancora nella lista nera di Israele. La convinzione è che sia in vita.
Una partita su più fronti, in cui lo Stato ebraico non è ancora riuscito a risolvere una parte cruciale, ovvero quella relativa agli ostaggi nelle mani di Hamas a Gaza. Con la tregua, durata dal 24 novembre all’1 dicembre scorsi, Israele è riuscita a riportarne a casa 105, in cambio di circa 240 palestinesi, altri sono stati liberati in blitz mirati, fra cui la giovane Noa Argamani, le cui immagini mentre veniva portata via in moto dai miliziani di Hamas dal festival musicale Nova verso la Striscia di Gaza erano diventate uno dei simboli del 7 ottobre. Molti invece sono deceduti. Si stima che quelli ancora in vita siano circa 50 sui 101 mai tornati a casa. Sulla loro liberazione si stanno concentrando gli sforzi dei mediatori di Usa, Egitto e Qatar, ma al momento i colloqui sulla tregua sono a un punto morto.
In Israele le proteste dei familiari sono cresciute di giorno in giorno. L’accusa al premier Netanyahu è di averli “abbandonati”, ma il capo del governo, spalleggiato dai suoi alleati di estrema destra, non ha intenzione di fare concessioni ad Hamas. La sua determinazione nel raggiungere gli obiettivi che si è prefissato è diventata ancora più cristallina nell’ultimo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, accusata di essere una “palude di antisemitismo”. La stessa critica era stata mossa al procuratore generale della Corte penale internazionale, Kharim Khan, che lo scorso maggio aveva chiesto il mandato di arresto con l’accusa di “crimini di guerra e crimini contro l’umanità” tanto per i vertici israeliani che per quelli di Hamas. “Ci attendono giorni difficili ma vinceremo”, il mantra che Netanyahu ha lanciato in più occasioni, l’ultima in occasione del raid che è costato la vita ad Hassan Nasrallah. L’operazione, non a caso, è stata chiamata ‘Nuovo ordine’, quello che tutte le parti in causa vorrebbero installare in Medioriente, ognuna a proprio vantaggio. Una vera e propria guerra regionale che ormai interessa tutta l’area, con conseguenze dirompenti per il mondo intero.
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