S'inasprisce la repressione delle manifestazioni di dissenso
S’inasprisce la repressione delle proteste contro il colpo di stato militare in Birmania, che il primo febbraio ha rovesciato il governo di Aung San Suu Kyi e riportato il Paese sotto l’ombra di cinquant’anni di dittatura. Altri due dimostranti sono stati uccisi dalle forze di sicurezza, che a Mandalay hanno sparato sulla folla. I media locali hanno parlato di una vittima colpita alla testa e morta sul colpo, un’altra colpita al petto e deceduta sulla via per l’ospedale. Numerosi i manifestanti feriti.
L’attacco dei militari è avvenuto dove già ieri (venerdì) gli agenti avevano usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma contro i dimostranti. Una giovane, la prima vittima della repressione, è morta sempre ieri nella capitale Naypyitaw, dopo che il 9 febbraio era stata colpita da uno sparo nel corso di altre proteste pacifiche.
Gli osservatori internazionali da giorni segnalano l’escalation della violenza della repressione, con il rischio di veder aumentare le vittime. Le truppe sono state man mano spostate nelle città dalle zone periferiche, mentre azioni violente erano segnalate nei luoghi dove la copertura dei media è minore. Cannoni ad acqua, lacrimogeni, fionde e proiettili di gomma erano già stati usati, soprattutto contro i lavoratori portuali di Mandalay. Dove, per rispondere alla proteste, i militari hanno mandato un contingente di 500 poliziotti e soldati. I lavoratori erano in sciopero, con la richiesta comune a tutte le proteste: l’uscita di scena della giunta, la restituzione del potere al governo eletto democraticamente.
A Naypyitaw, dove gli abitanti hanno creato un memoriale in strada per la giovane uccisa giorni fa e organizzato per lei una veglia di oltre mille persone, il potere resta però in mano ai militari, mentre i leader civili sono in carcere o agli arresti domiciliari. Hanno dichiarato di aver rovesciato il governo civile per brogli elettorali nel voto in cui ha trionfato il partito di Suu Kyi, che tuttavia non sono stati dimostrati, e che tra un anno lo restituiranno, con nuove elezioni. Prima del golpe, il mondo guardava con speranza alla transizione democratica guidata dalla Premio Nobel per la pace Suu Kyi, nonostante la delusione legata alla sua vicinanza all’esercito e alla sua negazione del massacro della minoranza Rohingya.
L’Occidente, intanto, continua a condannare il golpe e chiedere la fine delle violenze. Il dipartimento di Stato Usa ha ribadito l’appello ai militari di astenersi dalla violenza contro i manifestanti pacifici, mentre Washington, Regno Unito e Canada hanno imposto sanzioni ai militari e altri Paesi hanno chiesto la restituzione del potere al governo e a Suu Kyi, che è tuttora agli arresti. Dopo la notizia delle nuove violenze e della morte di altri due dimostranti, è tornato a intervenire anche l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell. “Esorto i militari e tutte le forze di sicurezza in Birmania a fermare immediatamente la violenza contro i civili. Lunedì al Consiglio Affari esteri discuteremo degli ultimi eventi in Birmania, per prendere le decisioni appropriate”, ha twittato.
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