Governo ed esperti parlano dopo l'ok del Parlamento Europeo allo stop a benzina e diesel dal 2035

Perplessità sulle tempistiche, preoccupazioni sui livelli di occupazione e difficoltà di riconversione dell’industria automobilistica italiana. Sono solo alcuni dei motivi per cui, dopo il via libera del 14 febbraio del Parlamento Europeo allo stop alla vendita di nuove auto a benzina e diesel a partire dal 2035, alcuni esponenti del governo come Antonio Tajani e Adolfo Urso hanno già iniziato a parlare di una controproposta per la transizione ecologica nel settore dei trasporti privati

Particolarmente problematico appare loro, in particolare, il rispetto del programma temporale previsto dall’Eurocamera. Urso, titolare del ministero delle Imprese e del Made in Italy, ha detto che i tempi e i modi dell’Ue “non coincidono con la realtà“. L‘Italia è “in ritardo” in particolare sulle colonnine: abbiamo 36mila punti di ricarica rispetto ai 90mila dell’Olanda. Allo stesso modo, secondo il vicepremier Tajani, gli obiettivi europei devono essere “raggiungibili”, oltre che salvaguardare l’industria dell’automotive italiano che potrebbe “perdere 70mila posti di lavoro”. 

Poche colonnine, code e costi

Ma non è stata solo la politica a esprimere dubbi dopo il voto europeo. Bruno Dalla Chiara, professore ordinario in Trasporti al Politecnico di Torino, ha spiegato a LaPresse alcuni dei problemi pratici che potrebbero sorgere in un mondo dei trasporti al 100% elettrico. Il primo, la presenza di colonnine elettriche sul territorio: “Il mondo ideale a cui forse ha pensato il Parlamento europeo sarebbe rappresentato dal fatto che chiunque un domani possa avere un’auto elettrica a ricarica e abbia la postazione a casa. Questo risolverebbe i problemi perché ogni persona che ha un’auto ha la possibilità di ricaricarla. Ma nel mondo reale, e l’Italia è molto più reale di altri Paesi europei, questa possibilità non esiste“, ha detto. Su circa 40 milioni di veicoli che ci sono in Italia, ha aggiunto, sono solo 15,7 milioni i posti auto: solo una parte della popolazione, dunque, potrebbe avere una colonnina di ricarica in casa, mentre gran parte dei rifornimenti elettrici “avverrebbe sul suolo pubblico”. A questo punto, ha aggiunto, “basta applicare la teoria delle code ed emergono le code infinite che ci sarebbero per potere ricaricare le auto se sono Bev, se sono ibride plug-in il problema sarebbe marginale”.

La necessità di ricaricare velocemente le auto causerebbe, poi, anche un problema di costi, secondo Dalla Chiara: “Se si punta a veicoli solo elettrici, tipicamente occorrerà puntare non solo alle ricariche ‘lente’ ma a quelle rapide o veloci che costano anche molto di più a parità di km percorsi rispetto a un rifornimento cioè se si effettua una ricarica domestica si può parla di 0,20-0,25 centesimi al kilowattora. Se si parla di una ricarica rapida o veloce sul suolo pubblico si arriva anche a 0,80 centesimi al kilowattora. Da analisi che abbiamo fatto, il breakeven tra ricarica e rifornimento è intorno ai 0,38-0,40 centesimi al kilowattora il che vuol dire che al di sopra di questo valore non conviene più la ricarica elettrica. Quindi non c’è solo una questione di costo di acquisto ma anche di costo di esercizio“.

Insomma, chiosa il docente, “quando si scala il mercato, cioè si raggiungono grandi numeri, si riscontrano code, costi, impatto sulla rete elettrica, che non è detto sia in grado di reggere tutta questa energia”. La soluzione del full-electric potrebbe dunque non essere quella decisiva per la transizione ecologica, e con la rinuncia alla produzione di auto con motori a combustione, spiega ancora Dalla Chiara, “ci consegniamo a un’alternativa che non è certa. Se si vuole fare una migrazione industriale non solo si rischia di consegnarsi alla Cina ma non si soddisfa nemmeno la domanda e si abbatte la competenza industriale”.

 

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