L'autore: "Metto in versi la nostalgia"
“La narrativa è qualcosa che puoi modificare, adattare alla situazione, su cui puoi mentire. Nella poesia no: puoi velare, usare metafore ma mentire non avrebbe senso. È la lingua della vita segreta”. Parola di Massimo Cecchini, giornalista classe 1961 con alle spalle una lunga militanza nella Gazzetta dello Sport ora dedicato anima e corpo alla letteratura: prima con il romanzo ‘Il bambino’ – candidato nel 2023 al Premio Strega – e oggi con ‘Anni in testacoda’ (uscito la scorsa settimana con Fallone editore), nel quale mette in versi l’eterno conflitto tra ciò che si era, quanto si è diventati e quel che si sarebbe potuti essere. “Passare alla poesia dopo il romanzo non è stato un percorso programmato” spiega a LaPresse “è stato un bisogno diverso, nuovo”.
Il titolo richiama la più nota sbandata delle automobili, nella quale ciò che è davanti finisce dietro e viceversa. “Alla mia età – racconta – ho scoperto di provare sentimenti simili a quelli della giovinezza. Sono anni in testacoda perché ci si trova a sbandare come da ragazzi. Quello che cambia sono le energie e le forze del corpo”. Muta, però, anche la consapevolezza.
“L’età porta una nuova lucidità, una comprensione del mondo che da giovane non hai. Però nelle poesie si vede anche una grande nostalgia delle imperfezioni di allora”. Cecchini si definisce “un nostalgico per natura, anche da giovane lo ero, forse perché sono stato un uomo fortunato, che ha vissuto cose bellissime”. Eppure la nostalgia può diventare un peso e infatti, osserva, “la parola fu coniata da un medico svizzero nel XVII secolo per descrivere quella sorta di malattia dell’anima notata in alcuni marinai e soldati che si trovavano lontani dal loro Paese. Nonostante sia sempre esistita, pensiamo alla nostalgia di Ulisse ne l’Odissea, la relativa parola è nata dalla codificazione di una patologia che nella poesia trova il modo più opportuno di esprimersi”.
Questo senso di malinconia per il passato nei versi di Cecchini si trasforma in una valutazione più ampia sui propri trascorsi. Si parte da ciò che si è e si arriva ad analizzare ciò che si sarebbe potuti essere, non senza una vena di rimpianto. “Ogni vissuto ha un corollario di potenzialità inesplicate – dice – ci si chiede, ad esempio, che sarebbe successo ‘se avessi sposato un’altra donna’ o ‘se avessi scelto lavoro diverso’. Queste potenzialità sono altrettante vite mancate e quindi rimpianti”.
Rendere in versi sensazioni così profonde è operazione complessa che Cecchini ha compiuto dopo lustri trascorsi a raccontare, con metro stilistico diverso, il meglio dello sport italiano. “Nella mia vita tutto avrei pensato fuorché fare il giornalista sportivo, all’inizio mi occupavo di cronaca, del comune, della regione, dei sindacati – ricorda – poi mi è capitato di andare alla Gazzetta e sono stato fortunato. È uno dei giornali più grandi del mondo, dove ho fatto una carriera non banale, raccontando Mondiali ed Europei” di calcio. Secondo Cecchini per chi voglia intraprendere il percorso della letteratura “fare il giornalista è un limite, specie oggi che si usa una comunicazione più rapida, sincopata che impedisce qualsiasi utilizzo levigato, pensato e curato della parola”. Nel raccontare lo sport “come nella poesia poi c’è il grosso rischio della retorica, che ho sempre trovato stucchevole. Parliamo di calciatori e atleti come se fossero Achille o Ettore senza esserlo”.
Sarà anche per questo che Cecchini oggi dice di trovarsi in una fase in cui si sta ‘disintossicando’ dalla cronaca sportiva mentre porta avanti i suoi progetti personali: “C’è un romanzo pronto che vorrei pubblicare – svela – credo sarà l’ulteriore evoluzione di un percorso di introspezione. Raccontare storie è sempre un modo per raccontare se stessi”.
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