“Facevo l’imprenditore, viaggiavo sempre in tutto il mondo. Poi la crisi e la voglia di farla finita e buttarmi di sotto dalla terrazza. Ero pieno di debiti le banche non ti davano nulla ma fuori le banche c’erano già gli strozzini”. Roberto Kao ha 73 anni e mille vite alle spalle. Il suo è un cognome particolare legato al padre di origini cinesi, un uomo importante che però non ha fatto in tempo a conoscere. È morto che lui aveva 5 anni, i suoi ricordi rivivono nei racconti della mamma e dei tre fratelli. Roberto è un figlio dei suoi tempi, figlio dei fiori negli anni settanta, poi imprenditore negli anni ottanta/novanta e poi la crisi, quella vera, quella da cui è impossibile uscirne da soli e li fuori non ha trovato nessuno a dargli una mano. “Ero giovanissimo e senza soldi, cominciai a fare mille lavori, il cuoco, il cameriere, il dj in un locale dove venivano personaggi famosi: Mia Martini, Gianni Morandi, tanti cantanti inglesi e americani. Le giornate non finivano mai, finito il turno di lavoro aspettavamo l’alba nei locali ad ascoltare musica e a ballare. In quel periodo cominciai anche a lavorare la pelle, in Italia c’erano tanti argentini che mi insegnarono a conciarla e cominciai a fare le mie prime borse”. In quegli anni gli oggetti in pelle erano molto richiesti, borse, portachiavi, zaini ma anche gonne, giacche: “Con un mio amico prendemmo un capannone che divenne ben presto il nostro laboratorio. Le prime pelli le conciavamo per terra senza avere i soldi nemmeno per ricomprarne dell’altra. Ben presto però ci inserimmo nel giro giusto abbiamo cominciato a lavorare con le grandi firme della moda. Abbiamo fatto passerelle ovunque, da Roma a Milano. Partecipavamo alle fiere della moda a Firenze, Bologna. Giravamo per l’Europa, nel mondo per cercare nuove idee, nuovi modi di lavorare e conciare la pelle. Verso la fine degli anni novanta però il vento cominciò cambiare. Le grandi firme cercavano qualcosa di nuovo e meno costo, la tradizione italiana era ottima ma per loro troppo costosa e così cominciarono a rivolgersi al mercato orientale per trovare manodopera a basso costo. Vietnam, Bangladesh, India, Cina. Ben presto questi mercati però cominciarono anche loro a produrre in proprio così il made in Italy divenne troppo caro e per noi fu la fine. Le richieste dei fornitori si ridussero drasticamente, i guadagni non coprivano i costi ma le banche chiedevano sempre gli stessi soldi per i prestiti concessi. In più ci si mise lo Stato con le tasse. Eravamo soli, non c’era nessuno che potesse aiutare. Le istituzioni praticamente non esistevano, non c’è mai nessuno con cui parlare e ragionare su come sistemare le cose. Gli unici che potevano darti una mano erano gli strozzini, con quel carico di morte che si portano dietro. Sono entrato in un meccanismo infernale, non mi capacitavo di quello che mi stava accadendo. Sono diventato povero, pensavo, non posso più andarmi a comprare una camicia, mettere benzina io che ero abituato ad entrare in un autosalone e prendermi una macchina in leasing. Ero sceso in fondo. Ho passato brutti periodi e poi sono dovuto uscirne. Chi mi ha aiutato è stato Sant’Egidio anche se per me all’inizio tutto questo era nuovo. Il Natale ora lo passerò alla chiesa di Santa Maria in Trastevere con tanti nuovi amici sbandati, in difficoltà, barboni. Se non ci fossero non so dove sarei oggi”.

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