Talitha Kum presenta la sua call to action
Nel 2020, avvicinarsi e aiutare le vittime di violenza è stato molto più complesso. Nonostante questo, la rete internazionale di vita consacrata contro la tratta di persone Talitha Kum è riuscita ad aiutare in tutto il mondo 15.800 ragazze finite nella spirale dei maltrattamenti.
Sessanta reti in 90 Paesi, 3mila volontari, tutti coordinati dalla suora comboniana Gabriella Bottani. Per il loro lavoro, è capitato che abbiano subìto pressioni da gruppi criminali, “ma chi soffre veramente e chi ha le ritorsioni più grandi sono le vittime, perché sono le testimoni prime e le persone che nel caso in cui denuncino sono percepite come un pericolo per l’organizzazione”, spiega intervistata da LaPresse.
Talitha Kum presenta il 25 novembre la sua call to action
Il pomeriggio del 25 novembre Talitha Kum presenta la sua call to action, che raccoglie indicazioni per la politica e per la società, perché “le leggi devono essere implementate e abbracciate da tutti”. Le religiose chiedono “giustizia per le sopravvissute”, la fine della “discriminazione di genere e della discriminazione etnica”, un modello economico da ripensare. E poi chiedono politiche e piani migratori che “al momento sono assenti e rendono i migranti particolarmente vulnerabili alla tratta”. “Mancano delle leggi, manca la possibilità di percorsi di reinserimento, i visti sono ancora molto frammentati, bisogna dare una stabilità, bisogna aumentare i visti di lavoro, promuovere l’educazione, promuovere alternative allo sfruttamento”, denuncia Bottani. “Senza un lavoro alternativo, facilmente queste persone vengono reclutate e inglobate in un vortice di sfruttamento e di distruzione e allora sono tante le proposte che dobbiamo fare, ma rientrano in un modello di trasformazione della società. Dobbiamo offrire strumenti ai sopravvissuti alla tratta”.
Quando le forze dell’ordine identificano persone vittime di tratta, realtà gestite da suore vengono informate e iniziano a occuparsi di queste ragazze. Ma la rete lavora anche con gruppi che “fanno azioni di emersione”: “Le faccio un esempio, una signora in parrocchia denuncia alla suora la scomparsa della figlia in Europa e da lì scatta tutto un meccanismo per capire se siamo davanti a un caso di tratta”. Poi c’è l’ascolto, la visita domiciliare delle sorelle in zone rurali, dove in genere avviene il reclutamento, “penso alla zona amazzonica, dove sono stata prima di venire a Roma”, racconta la comboniana. “Nel centro America, poi, le sorelle vanno ad accogliere i migranti all’arrivo. Una volta che sono in grado di riconoscere gli indicatori di tratta, si identificano i casi”. Con la pandemia, l’indoor è aumentato e i gruppi di strada che lavoravano con le ragazze hanno avuto più difficoltà ad avvicinarsi.
Il velo non crea distanza, assicura, scatta invece nella vittima un meccanismo opposto: “A volte proprio perché la suora evoca una parte bella di spiritualità, molte persone trovano più facilità ad aprirsi – confessa -. Noi ci approcciamo come suore, non come agenti di organismi internazionali, la prima cosa è accogliere”. Sente di doversi sostituire allo Stato, in alcune occasioni? “No, o almeno dipende dai contesti. Di fronte al dramma umano, però, se lo Stato non agisce noi ci attiviamo”.
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