di Denise Faticante
Roma, 8 ott. (LaPresse) – Una corona di fiori che galleggia nel mare diventato la tomba di migliaia di persone che cercano un futuro migliore. E’ con questa immagine che inizia, mediaticamente, l’opera di Papa Francesco come uomo di pace, perdono e riconciliazione. Era il luglio del 2013: le acque dell’Isola di Lampedusa già da tempo erano diventate tomba di innocenti e Bergoglio, a nome di tutti, chiese scusa tuonando contro “la globalizzazione dell’indifferenza”.
Dal primo giorno del suo pontificato, l’argentino “venuto dalla fine del mondo” tesse la tela della diplomazia che ha portato a straordinari risultati come la storica riapertura delle relazioni tra Cuba e Stati Uniti. Alcuni hanno già definito l’atteggiamento del papa sulla scena internazionale una sorta di ‘geopolitica dello spirito’, che tuttavia si muove dentro binari ben tracciati, senza tentennamenti e paura.
Pochi mesi dopo essere salito sul soglio di Pietro, il pontefice riceveva in Vaticano il patriarca copto d’Egitto, il papa Tawadros II, alla testa della più forte Chiesa nel mondo arabo. Erano 40 anni che un patriarca copto non metteva piede a Roma. E’ ancora vivo il ricordo della grande veglia di preghiera a San Pietro per scongiurare la guerra in Siria nell’estate del 2013.
Prima di quell’evento il Papa scrive una lettera a Vladimir Putin chiedendo “di porre fine ai massacri” e di “evitare altre atrocità“. Pur provocando non pochi fastidi al governo israeliano, la Santa Sede riconosce lo Stato palestinese e Bergoglio porta in Vaticano Shimon Peres e Abu Mazen per parlare di pace. La foto dei tre che piantano l’ulivo rimarrà nella storia.
Ormai Francesco ha conquistato un ruolo prestigioso di autorità morale a cui si riconosce la legittimità di partecipare al delicato processo di risoluzione dei conflitti globali. Nel suo viaggio negli Stati Uniti e a Cuba, dove è andato come “missionario di pace”, ha gettato semi facendosi testimone di quella ‘chiesa in uscita’ che è il sigillo di tutto il suo pontificato. A Cuba ha parlato della rivoluzione delle tenerezza. Negli Usa e all’Onu, davanti ai grandi della terra, non ha avuto alcuna remora nel chiedere cambiamenti epocali a favori degli svantaggiati e degli “scarti della società”.
Ora Bergoglio sta giocando la partita del Sinodo: forse più che mai sono in gioco le sue grandi doti di pontiere, pacificatore e diplomatico.
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