Roma, 4 apr. (LaPresse) – Sergio Bianchi ha 52 anni e lavora al 118 di Frosinone. La notte tra il 5 e il 6 aprile del 2009 da un paesino della Ciociaria, Monte San Giovanni Campano, corre verso l’Aquila. Qui studia Nicola, suo figlio di 22 anni. E’ appassionato di Biotecnologie. Di quella notte e dei successivi giorni e dei successivi anni Sergio non ha dimenticato nessun istante. Parlare per lui di quel dramma, dice, non è neanche liberatorio perché “il dolore è tutto dentro, non passa e non deve passare”. Quella notte Sergio, con sua moglie e sua figlia, di 17 anni, parte verso capoluogo abruzzese “convinto di riportarmi a casa Nicola”.
“Lui era accorto – sostiene – non poteva essere morto sotto le macerie”. Sergio arriva all’Aquila e inizia prima a cercare il figlio tra gli amici, poi tra i morti che già era stati estratti, e infine inizia a scavare con le sue nude mani tra le macerie di quel maledetto palazzo di via d’Annunzio che ha inghiottito suo figlio e altre dodici persone. Due giorni, due notti poi la drammatica scoperta. Nicola è morto, nel suo letto. “Per me – dice – non è difficile tornare indietro, perché la mia vita è ferma a quel giorno”. “Ero sicuro, giuro – dice con il volto di un uomo cui sono finite le lacrime – di trovarlo per strada. Lui era molto attento. Si fidava delle istituzioni, e le istituzioni avevano tranquillizato lui e l’intera cittadinanza”.
Sergio ha mille domande, anche tante risposte. Oggi non si chiede più perché lo Stato, in tutte le sue forme e declinazioni, non abbia dato un cenno. Lui, per suo figlio, non ha voluto funerali di Stato e per questo non ha avuto accesso ai fondi per le esequie. Poco male, dice, non mi importa. Ma quest’uomo ha dovuto far fronte anche a molte spese sanitarie. “Mia figlia sta seguendo una terapia e nessuno mi ha mai rimborsato per questo”. La famiglia Bianchi ha scoperto anni dopo che i rimborsi spettavano solo alle vittime residenti all’Aquila. “Soli – dice scuotendo la testa – si sta soli”. E conclude: “Non ho avuto nessuna vicinanza nessuna solidarietà, peggio degli animali. Anzi loro hanno un senso di solidarietà molto più grande di quello che esiste tra gli umani”.
E per trovare insieme delle risposte, i familiari di tredici studenti morti a L’Aquila hanno creato l’Avus, l’Associazione Vittime Universitarie del 6 aprile, di cui Sergio è presidente. Familiari che adesso attendono giustizia dal maxi processo alla Commissione Grandi Rischi, che ha condannato in primo grado nell’ottobre scorso a sei anni tutti i componenti in carica nel 2009, che avrebbero rassicurato gli aquilani circa l’improbabilità di una forte scossa sismica che invece si è verificata. L’accusa aveva chiesto per loro quattro anni.
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