"Sarà all'altezza di condurre la nostra squadra", aveva detto 17 mesi fa Tavecchio presentando l'uomo incaricato di portare gli azzurri al Mondiale di Russia

"Un maestro di calcio che ha insegnato a tanti allenatori", "lo stesso concetto di sacrificio e perseveranza di Conte", "sarà all'altezza di condurre la nostra squadra". Così 17 mesi fa Carlo Tavecchio presentava Gian Piero Ventura, l'uomo incaricato di portare la Nazionale al Mondiale di Russia.

Arrivato in azzurro dopo i cinque brillanti anni al Torino, da lui condotto in Europa dopo un lungo digiuno, il tecnico genovese classe 1948 – esordio sulla panchina delle giovanili doriane 40 anni fa – doveva essere negli auspici federali l'uomo capace di aprire una nuova fase, applicando alla Nazionale le specialità del suo menù: trarre il massimo dal materiale a disposizione, soprattutto in mancanza di vere stelle; modellare e far maturare grazie alla sua sapienza tattica i talenti della new generation azzurra, sullo stile delle corazzate continentali (va ricordato che Conte lasciò in eredità dopo l'Europeo una rosa dall'età media di quasi 32 anni).

Invece, la gestione di 'mister Libidine' è finita come peggio non si poteva. La notte da incubo di San Siro ha mandato in stampa una delle peggiori pagine del calcio italiano. E legato indissolubilmente il suo nome ad una disfatta di cui parlerà a lungo anche se, ovviamente, le colpe non si possono addossare tutte al ct. Anzi. Il nome di Ventura, mai approdato nel suo personale giro d'Italia delle panchine – saggiate a tutti i livelli – alla guida di una big, da subito non ha scaldato gli entusiasmi del popolo. Missione ai limiti del possibile, del resto, considerando che a far dimenticare la 'star' Conte era stato chiamato un allenatore poco abituato ai riflettori della piazza e considerato di seconda fascia: poco titolato, scarsa conoscenza internazionale, una carriera nelle retrovie. Come praticamente per tutto in Italia, della sua scelta se n'è anche fatta una questione politica. Ma, come sempre, l'unica cosa su cui viene giudicato un allenatore, physique du role o meno, sono i maledetti risultati. Il problema è che non solo i risultati non sono arrivati, ma che pure il contorno è apparso in più di un'occasione indigesto.

Raggiunta all'età della pensione la destinazione più nobile del suo curriculum ed indossato i prestigiosi quanto scomodi panni di un allenatore guardato a vista da 60 milioni di persone, poche volte Ventura è riuscito – soprattutto nell'ultima parte del suo regno – a sintonizzare le sue frequenze su quelle di un ambiente dove i refoli di vento fanno presto a diventare burrasca. Questione di personalità, certo, di capacità di resistenza alla pressione ma anche – le vesti di rappresentante della nazione tutta lo impongono – di eleganza, di stile. Quello che, ad esempio, è mancato in occasione del match con Israele, quando ammise candidamente di non conoscere gli avversari. O come quando così presentò il Bernabeu, il teatro che ha coinciso con l'inizio della fine: "Mica è una giungla, mica ci sono i coccodrilli" (la carneficina però c'è stata, eccome). E come scordare lo sgradevole rimbrotto ad un giornalista macedone che gli chiedeva di possibili dimissioni, prontamente rimesso in riga dal tecnico con un "forse non sai che noi ai playoff ci siamo già" (mancava ancora la matematica, invece). Fino alla modalità dell'uscita di scena, ben poco onorevole: la nazione dava come scontato il suo saluto nella pancia di San Siro, lui ha optato per un tira e molla con la Federazione sulla buonuscita. Ben altro stile avevano sfoggiato Donadoni e Prandelli al momento del congedo. E poi, ovviamente, la gestione tecnica. Le scelte: il testimonial in questo senso è Jorginho, sempre ignorato e fatto esordire nella gara che sulla carta doveva salvare il calcio italiano. La poca elasticità nella scelta del modulo, gli sbagli nel disegno della formazioni, quella convinzione via via convertitasi in pericolosa ostinazione: a Madrid si è vista la madre di tutti i disastri, con quel 4-2-4 che odorava più di suicidio che di spavalderia, ed in effetti lì è finito praticamente tutto. Il naufragio di Solna, dove si è vista una squadra spenta, confusa, svuotata nella testa e nelle gambe. Un ko che il ct ha goffamente cammuffato avanzando l'alibi dell'arbitraggio sfavorevole. L'equivoco dei ruoli, poi: Insigne, disinnescato in una posizione che non è quella in cui furoreggia nel Napoli ed addirittura lasciato in panca a San Siro, Belotti e Immobile costretti praticamente a pestarsi i piedi. Un'idea di gioco andata via via rarefacendosi – quasi uno smacco per un allenatore che ha sempre cercato di praticare un calcio bello a vedersi e per il quale allenare "è una goduria" – e culminata nello sconfortante 'zero' alla casella gol segnati alla Svezia, che era la Svezia appunto, e mica la Germania.

I rapporti con lo spogliatoio: Ventura non ha mai avuto la fama di sergente di ferro, ma l'impressione è che nel post-Spagna il rapporto tra ct e squadra si sia gradualmente ed irreversibilmente sfilacciato come se la squadra non riuscisse più a credere nel suo condottiero. Significativa la riunione tra i giocatori post-Macedonia, svoltasi in assenza del ct, seppur con lui concordata. Così come, ed è forse la cartolina emblematica dell'ultimo capitolo dello sciagurato ciclo venturiano, lo sfogo di De Rossi, che nell'era dei labiali coperti dalle mani, non si è fatto problemi a farsi vedere da tutto il mondo mentre reclamava l'ingresso in campo di Insigne rifiutando il riscaldamento.

La calata del sipario nella buia notte di Milano. Salutato Ventura, che non sarà rimpianto, e in attesa di conoscere il nome del successore, restano le macerie di un movimento ancora lungi dall'uscire dal tunnel, un calendario che per l'ennesima volta ricomincia dall'anno zero, una ricostruzione che si rende più urgente che mai e che necessita di un piano regolatore e non di frettolosi rattoppi. La consolazione, magrissima, è che una volta toccato il fondo non si può che risalire.

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