Elezioni: Letta prova a blindare alleanza a 4 punte e a evitare gli stracci sulle liste. Il segretario alla Direzione: io front runner

Lo 'schema' di gioco per settembre vorrebbe insieme la lista "democratica e progressista" del Pd, con dentro Art.1 e Demos; il 'fronte repubblicano' di Carlo Calenda ed Emma Bonino; Europa Verde e Sinistra italiana (che hanno condiviso con i dem tutto il percorso delle Amministrative); e un polo 'civico', che metta insieme le esperienze politiche di Luigi Di Maio, Beppe Sala e Federico Pizzarotti

 Un’alleanza “tecnica” a quattro punte: la lista “democratica e progressista” del Pd, con dentro Art.1 e Demos; il ‘fronte repubblicano’ di Carlo Calenda ed Emma Bonino; Europa Verde e Sinistra italiana (che hanno condiviso con i dem tutto il percorso delle Amministrative); e un polo ‘civico’, che metta insieme le esperienze politiche di Luigi Di Maio, Beppe Sala e Federico Pizzarotti. Lo ‘schema’ al quale lavora Enrico Letta da giorni è questo. Alla direzione nazionale che riunisce in mattinata il segretario chiede il mandato politico per provare a metterlo in campo. E non è un caso che, una volta ottenuto l’ok all’unanimità del parlamentino dem, il leader faccia il punto nel suo quartier generale di riferimento, la sede Arel, proprio con il sindaco di Milano e il ministro degli Esteri, fondatore di Insieme per il futuro.

 “Sono per ora contatti e incontri interlocutori per accompagnare la nascita di una lista civica – spiegano al Nazareno – Nei prossimi giorni si capirà se l’interlocuzione avrà dato i suoi frutti”. Il ruolo di Letta è più che altro, in questo caso, quello di facilitatore, ma ai piani alti del Pd l’auspicio è che l’operazione vada in porto, perché, “serve a controbilanciare una destra antieuropea e ormai sovranista“. Al di fuori di quello che definisce “il trio dell’irresponsabilità”, perifrasi che mette sullo stesso piano Giuseppe Conte, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi colpevoli di aver fatto cadere il Governo Draghi, Letta intende tentare il dialogo con tutti. Bisogna allargare il campo aperto, è il refrain, ferma restando la premessa di fondo: si tratta di un’alleanza “tecnica, di tipo elettorale”, con l’obiettivo di essere in partita. “I programmi saranno diversi, lo sappiamo, ma il perimetro può essere comune”.

 Parlando alla direzione nazionale Letta lo dice chiaro. “Il pareggio non è contemplato. O vince l’Europa del Next generation Eu, della speranza e del coraggio o vince l’Europa dei nazionalismi, di Orban di Marine Le Pen. Non ci sono terze vie. Per questo dico che la scelta è tra noi e Meloni, ribadisce la linea. E se il “cuore” del progetto politico che il segretario intende costruire in vista del voto del 25 settembre restano il Pd e la sua lista “democratica e progressista” che vede già la partecipazione di Art.1 e Demos, “poi – ammette il leader – ci sono delle alleanze che siamo costretti a fare dalla legge elettorale”. Letta intende andare a recuperare anche gli elettori moderati di FI, ‘traditi’ dalla scelta “suicida”del partito. “Convinciamo una parte di elettori che hanno votato lì, o sarà difficile giocarsela solo con gli astensionisti. Dobbiamo toglierci dalla testa il ragionamento: ‘se quello sta con voi non vi voto’. O noi o Meloni vuol dire che o noi convinciamo con qualcuno che in passato ha votato per loro o noi questa sfida non la vinciamo”.

Direzione nazionale del Partito Democratico, la preoccupazione di fondo del ‘parlamentino’ è che alla fine tutto questo allargare alla fine metta a rischio il posto di chi in questi anni è cresciuto dentro il partito o sul territorio

 Il parlamentino dem condivide la linea, ma in tanti – off the record – ammettono un certo timore, “la preoccupazione di fondo che alla fine tutto questo allargare alla fine metta a rischio il posto di chi in questi anni è cresciuto dentro il partito o sul territorio”. L’agitazione nei capannelli dem in Transatlantico, alla Camera, dopo la riunione, è visibile a metri di distanza. Per provare a evitare “che volino gli stracci” come accadde quando, nel 2018, fu Matteo Renzi a disegnare le liste, in una notte rimasta leggendaria nelle cronache politiche, Letta prova a blindare un percorso fatto di tempi serrati e scelte trasparenti. Saranno i segretari regionali e le capigruppo Debora Serracchiani e Simona Malpezzi a fare una prima ricognizione, che dovrà concludersi entro il 2 agosto. Dopo una verifica con il segretario, che potrà anche – da regolamento – integrare le candidature con nomi “di dirigenti politici di rilievo nazionale e personalità espressione di importanti realtà della società italiana e portatrici di competenze, ovvero indicate da altre forze politiche con le quali il PD abbia stretto accordi politico elettorali”, le liste verranno messe ai voti di una nuova direzione nazionale, che si riunirà tra il 9 e l’11 agosto. Non potranno candidarsi i sindaci dei comuni con oltre 20mila abitanti e gli amministratori regionali in carica, eccezion fatta per chi – vedi Nicola Zingaretti – è all’ultimo anno di legislatura. Stop anche a deputati e senatori “che abbiano ricoperto la carica di Parlamentare nazionale per più di 15 anni consecutivi”, con una ‘green card’ per ministri e sottosegretari e per chi dovesse chiedere e ottenere una deroga.

 Non lo farà Luigi Zanda, che si chiama fuori pur assicurando il suo contributo per la campagna elettorale, ma in ogni caso – filtra – le eccezioni saranno pochissime. “Ci saranno molti scontenti”, mette in chiaro Letta. Perché se i sondaggi sono buoni e in crescita rispetto al 2018, sui posti incide parecchio la riforma che ha ridotto il numero dei parlamentari. “Ci sono 30 collegi al Senato e 60 alla Camera da cui dipenderanno le elezioni. Siamo sotto di 5-8 punti, dobbiamo scegliere il candidato giusto. E la gente va a vedere se c’è il paracadute oppure no”, avverte il segretario, che chiede collaborazione e non “problemi e ‘chiodi piantati’ in attesa di una soluzione” e pensa a candidati “di prossimità” sul territorio.

 Quanto al nome del premier, Letta parla chiaro per evitare che anche a sinistra si consumino “scene da centrodestra”. La discussione ieri “è stata surreale. A chi affila le armi – scandisce – dico che a palazzo Chigi si va perché gli elettori ti spingono lì e il Parlamento ti vota. Io vorrei derubricare questa assurda discussione e dire che, se volete, assumo completamente il ruolo e la responsabilità di front runner della nostra lista”. Fa lo stesso, per sua parte Carlo Calenda, che ieri aveva insistito per riportare il premier dimissionario a palazzo Chigi. “Se domani Draghi dicesse che non è disponibile come premier, allora mi candiderei io”, taglia corto. E’ invece convinto di correre da solo Matteo Renzi, almeno per il momento. “Quando abbiamo mandato a casa Conte e abbiamo portato a casa Draghi – attacca – dicevano ‘impossibile’. Lo abbiamo fatto, lo rifaremo”.