Referendum: troppo politico e lontano dal popolo, ragioni di un flop

Ecco le ragioni del flop del referendum sulla giustizia, secondo le diverse 'anime' dei promotori, che spiegherebbero il risultato peggiore della storia in termini di affluenza (poco sopra il 20%)

I tempi, il metodo, i media, la Corte costituzionale e la “mancata” comunicazione. Ecco le ragioni del flop del referendum sulla giustizia, secondo le diverse ‘anime’ dei promotori, che spiegherebbero il risultato peggiore della storia in termini di affluenza (poco sopra il 20%) e un voto spaccato quasi a metà fra chi si è recato ai seggi. I Radicali Italiani provano comunque a vedere il bicchiere mezzo pieno e parlano di essere riusciti a “iscrivere la questione giustizia nell’agenda politica di questo Paese” dentro a una “lotta che non finisce qui ma che si arricchisce di un nuovo, dirimente fronte: quello del diritto dei cittadini ad essere informati”. Ma non risparmiano critiche e autocritiche.

“Come denunciamo da decenni – fanno sapere in una lunga nota – in Italia è quasi impossibile promuovere e vincere referendum: dall’impossibilità di raccogliere 500.000 firme autenticate e certificate, al giudizio politico della Corte Costituzionale, passando per il boicottaggio del cosiddetto servizio pubblico della Rai e finendo con l’esistenza di un quorum che spazza via quasi ogni consultazione popolare”.

Nell’analisi della sconfitta del day after, sul banco degli imputati ci finisce anche la “‘scelta’ di non consegnare le firme in Cassazione” affidandosi invece “alle deliberazioni delle Regioni”. “Abbiamo sempre condiviso i quesiti e li abbiamo lealmente sostenuti, non certo il metodo”, affermano gli eredi di Pannella in proposito. Perché “senza condivisione popolare non si va da nessuna parte”. “Mancata comunicazione” è la diagnosi di Giulia Bongiorno, senatrice e responsabile Giustizia della Lega, per spiegare il mancato raggiungimento del quorum. “Nessuno sapeva di questi referendum, solo alla fine si è fatto allarme, questo è un flop”, dichiara l’avvocato e legale di Matteo Salvini in alcuni procedimenti, pur ricordando che “l’esito del ‘Sì’ ha prevalso sul ‘No’. Chi comunque è andato a votare ha detto sì. E da lì ripartiamo”.

C’è però chi non risparmia critiche proprio alla Lega e al numero uno del Carroccio. “Salvini non ha il profilo del garantista”, attacca Benedetto della Vedova, sottosegretario agli Esteri e segretario nazionale di +Europa. “Negli ultimi 15 giorni di campagna – dice a LaPresse – si è occupato di tutto, tranne che di referendum. Si è occupato di Mosca, Bce, ma non ha fatto campagna per i referendum, che sono anche stati un po’ abbandonati da chi li ha promossi”.

Un mix di concause, all’interno delle quali ci finiscono anche la data scelta per la consultazione – 12 giugno – e il voto spalmato su una sola giornata. “Le scuole sono chiuse e la gente va al mare”, sintetizza Marco Perduca, presidente del Comitato Promotore Cannabis Legale che ha depositato in corte di Cassazione 610mila firme a sostegno di questo quesito referendario. E che individua nei temi poco sentiti dai cittadini il tasso di astensione così elevato. “La Corte Costituzionale non ha ritenuto ammissibili i due referendum popolari perché avevano raccolto le firme e perché riguardano temi estremamente popolari, come l’eutanasia – dichiara a LaPresse -. Lo abbiamo visto con 1,2 milioni di firme raccolte grazie a 30mila persone mobilitate per raccoglierle. Lo stesso vale per la cannabis, per la quale in pochi giorni abbiamo raccolto 500mila firme e le altre 130mila in altri 2 giorni”.

Numeri che, secondo Perduca, raccontano una storia diversa: “Abbiamo dato un segnale che ci fossero dei temi che avessero una necessità ed urgenza veramente sentite – chiude – escluderli è stato il colpo di grazia”.