Mes, fronda M5S: “No a riforma”. A rischio numeri Senato. Pd: “No diktat su 37 mld”

Lettera di 69 parlamentari pentastellati che minacciano di bloccare la ratifica alle Camere

“Se davvero 17 senatori del M5S non votano la risoluzione sulla riforma del Mes, i numeri non ci sono. C’è poco da tirare fuori il pallottoliere”. A Palazzo Madama la notizia della lettera inviata da 52 deputati e 17 senatori pentastellati allo stato maggiore del movimento, per mettere nero su bianco il ‘no’ alla revisione del Meccanismo europeo di stabilità fa presagire scenari funesti.

In effetti i toni di chi scrive – tra i firmatari anche due membri del Governo e gli ex ministri Barbara Lezzi e Danilo Toninelli – sono piuttosto netti. Nella lettera, indirizzata al capo politico Vito Crimi, al capodelegazione al Governo Alfonso Bonafede, ai capogruppo alla Camera e al Senato, Davide Crippa e Ettore Licheri, e per conoscenza anche al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio e al sottosegretario Riccardo Fraccaro, si chiede di “riaffermare con maggiore forza e maggiori argomenti, quanto già ottenuto negli ultimi mesi: No alla riforma del Mes“.

Nessuna volontà di “mettere a rischio” la maggioranza, viene sottolineato, piuttosto una risposta alla posizione “troppo aperturista” sulla riforma arrivata nei giorni scorsi da Vito Crimi. I valori del M5S – è il messaggio – non cambiano. Guai, quindi, a dare tutto per chiuso e inevitabile: “Ora è il momento di non arretrare su posizioni che non sono nostre”. Per non tradire il proprio credo, scrivono i ribelli 5S la strada è una e una sola: “L’unico ulteriore passaggio che i parlamentari del MoVimento 5 Stelle avrebbero per bloccare la riforma del Mes – scrivono – sarebbe durante il voto di ratifica nelle due Camere”.

Si cambi rotta o blocchiamo la risoluzione, è il non detto. Ai piani alti si prova a stemperare: “Si arriverà a un testo soft sulla riforma e che imponga il passaggio in Parlamento per ogni decisione sui 37 miliardi”, è l’ipotesi. Il Pd, però, promette battaglia: “Non voteremo mai una risoluzione che preveda o ipotizzi il mancato utilizzo del Mes sanitario”, avvertono i Dem.

La partita, insomma, è tutta da giocare. Dopo il no arrivato ieri da Silvio Berlusconi, queste defezioni annunciate rappresentano una vera e propria grana per la maggioranza. “Vediamo cosa succederà da qui al 9 dicembre (quando è previsto l’intervento di Giuseppe Conte in aula), non tutti i 17 senatori firmatari saranno irriducibili”, dice qualcuno. “Magari FI non è tutta compatta a votare no”, ipotizza qualcun altro. La componente Cambiamo di Giovanni Toti, che a Palazzo Madama conta tre senatori (Massimo Berruti, Gaetano Quagliariello e Paolo Romani) sarebbe già pronta a sostenere la riforma e dalle fila azzurre potrebbero arrivare, viene spiegato, altri 3-4 voti.

Certo i numeri restano sul filo. I conti sono presto fatti. La maggioranza può contare su 35 senatori Pd, 75 M5S (tolti i 17 dissidenti ai 92 componenti del gruppo), 18 di IV e 8 delle Autonomie. Poi ci sarebbero 15 parlamentari del Misto che di solito votano con la maggioranza, i tre senatori di Cambiamo e i senatori a vita Mario Monti e Elena Cattaneo. Il totale fa 156. L’opposizione può contare invece su 54 senatori di FI, 63 della Lega, 18 di FdI, 11 del Misto. Totale 146. A questi voti, però, andrebbero aggiunti i 17 no dei dissidenti M5S: 156 sì vs 163 no. “Maggioranza battuta, addio riforma del Mes e addio Governo Conte due”, per dirla con i più pessimisti.

Gli sherpa, comunque, sono a lavoro. Venerdì si riunirà l’assemblea dei gruppi pentastellati e si cercherà di trovare una quadra. In serata già il dissenso sembra rientrare: diversi deputati tolgono la firma alla lettera e ne restano circa una trentina. Tra gli alleati non mancano le accuse. “Il dissenso che rischia di aprirsi nella maggioranza è comunque un problema che riguarda principalmente i capigruppo 5 Stelle”, sentenzia il collega Dem Andrea Marcucci. Goffredo Bettini, dirigente dem vicino a Nicola Zingaretti, si dice sorpreso e molto preoccupato “dall’improvviso cambio di linea” di Forza Italia. “Dopo l’importante convergenza sullo scostamento di bilancio, che ha ridato a Berlusconi un ruolo politico, autonomia e prestigio in larga parte dell’opinione pubblica, sarebbe paradossale se il Cavaliere buttasse via tutto, proprio – è l’affondo -su un punto distintivo e vitale per il suo partito: la collocazione in Europa, il legame con il Partito Popolare Europeo, l’affidabilità sul piano dei rapporti internazionali e atlantici. Temo che ciò sia dovuto alle pressioni delle forze sovraniste della destra italiana”, stuzzica.